Da oltre 35 anni diamo una risposta alle dipendenze creando un'alleanza terapeutica con gli Enti invianti, le famiglie e i soggetti coinvolti.

Figli invisibili nella conflittualità familiare

Prof. Luigi Cancrini

Figli invisibili nella conflittualità familiare

Prof. Luigi Cancrini

 

Introduzione

Affrontando il tema ritengo che sia molto utile un approccio che prenda in considerazione in maniera congiunta i problemi relativi ai minori e i problemi relativi alla tossicodipendenza. Io, in realtà ho cominciato a occuparmi di tossicodipendenza proprio con gli adolescenti.

I primi adolescenti che fumavano gli spinelli – i cosiddetti hippy – comparvero nel 1967. A Roma in quei tempi si usavano le anfetamine e i tossicodipendenti che cominciavamo a incontrare erano giovanissimi, italiani e stranieri. Si trattava di ragazzi appartenenti alle frange più sbandate del movimento giovanile degli ultimi anni sessanta ed erano ragazzi che, generalmente, in estate andavano in Olanda, ad Amsterdam, e in inverno venivano in Italia. A Roma i loro ritrovi preferiti erano piazza Navona, Campo dei Fiori – dove c’erano ragazzi che “si facevano” pesantemente – e Trastevere dove, invece, c’era un giro di spinelli.

La cosa che mi colpì molto – e che credo sia rimasta nel tempo la caratteristica di questo tipo di utenza – fu la difficoltà del primo contatto: io capii questo attraverso un ragazzo che avevo conosciuto in ospedale il quale, quando gli dissi che il nostro ambulatorio era aperto la mattina dalle 9.00 alle 13.00, si mise a ridere e mi disse: “in questa fascia oraria non vedrai mai un tossicodipendente”. Io, insieme ad altri colleghi, decidemmo di seguire il suo consiglio e mettemmo in piedi un piccolo ambulatorio dalle 22.00 alle 24.00 per tre volte la settimana.

In quegli stessi anni, presso l’Università di Roma, era stato aperto un Centro per le Tossicodipendenze con tre medici (tra cui io) e tre tirocinanti, e don Picchi – che ancora non aveva fondato il CeIS (Centro Italiano di Solidarietà), ma agiva per conto della Caritas – aveva aperto un piccolo appartamento subito dietro piazza Navona, nel quale ragazzi tossicodipendenti potevano entrare la sera e uscire la mattina – una sorta di pronto soccorso notturno – nel quale ci recavamo anche noi dopo il nostro servizio in piazza Navona.

L’esperienza di quegli anni mi ha insegnato che è importante aprire un dialogo con il tossicodipendente a patto che si accetti l’idea che un tossicodipendente può essere aiutato solo quando lui stesso ha la percezione, e la consapevolezza, che dalla tossicodipendenza si può uscire, e questo, per l’operatore, deve essere il punto di arrivo e non il punto di partenza.

Da allora sono passati tanti anni, quegli adolescenti sono diventati adulti, e io ho imparato che esiste come un ciclo che si ripete nelle storie di vita di queste persone, un ciclo che può essere interrotto solo dalla riuscita dell’azione terapeutica: se l’azione terapeutica non ottiene successo, il primo esito è che i figli per questi genitori sono figli invisibili, la seconda è che questa condizione di figlio invisibile è fortemente predisponente all’ingenerarsi delle stesse difficoltà dei genitori.

Per noi operatori, allora, è importante renderci conto del fatto che questo tipo di eredità non è di natura genetica – non si eredita la tendenza alla devianza come si ereditano l’altezza, o il colore dei capelli, o alcune malattie – ma esiste una trasmissione intergenerazionale legata al fatto che la cura dei figli per persone gravemente disturbate e non sufficientemente aiutate, risulta così difficile da poter provocare nel tempo, sui figli, disturbi analoghi a quelli vissuti dai loro genitori.

La conferma più concreta, scientifica, di questo io l’ho avuta in questi ultimi anni, nel lavoro fatto presso il Centro del Bambino Maltrattato e della Sua Famiglia del Comune di Roma.

 

Intervento terapeutico e dinamiche familiari: due casi

Il Centro lavora a un secondo livello: non è aperto al pubblico, è aperto, però, ai Servizi Sociali per Minori del territorio; al Tribunale per i Minorenni per le sue specifiche competenze; al Tribunale Civile per i casi di separazione o di divorzio, e al Tribunale Penale per i reati di maltrattamento e abuso.

Le richieste di aiuto arrivano da questi organismi e riguardano ragazzini non tutelati; l’aiuto si esprime in consulenza, oppure in presa in carico, soprattutto per quest’ultima noi esperti abbiamo un ruolo di formazione e di sostegno.

Che cosa abbiamo sperimentato lavorando in questo modo?

Abbiamo sperimentato che i figli di tossicodipendenti sono tantissimi.

La tossicodipendenza dei genitori è, dunque, uno dei motivi più frequenti della presa in carico di minori che subiscono maltrattamenti e abusi. Ad onor del vero occorre dire che sono tantissime anche le famiglie normali che, all’interno di drammatici litigi, o in rapporto a patologie del loro modo di stare insieme, danno origine allo sfruttamento di minori, però le situazioni di disagio che impegnano di più il Centro sono quelle che hanno a che fare con genitori tossicodipendenti.

In questo contesto il grande problema di fronte a un minore non tutelato sufficientemente non è tanto quello di valutare se una data famiglia sia in grado o meno di occuparsi di quel minore, ma quello di verificare, sulla base dell’intervento terapeutico, se il gruppo terapeutico è capace di aiutare quel genitore a diventare sufficientemente competente, cioè di essere capace di mettere i genitori in grado di avere un rapporto sano con i propri figli.

Dare risposte richiede di solito grande impegno prima di tutto nella definizione del progetto iniziale – è sempre molto difficile capire quali risorse sono disponibili per un bambino in difficoltà – e poi nell’avvio di attività che nel caso dell’abuso determina la necessità di interventi di rete.

Per non rimanere nel teorico, prendiamo in esame un caso classico – la bambina abusata dal padre, o dal compagno della madre.

Proprio in quest’ultimo periodo, nel mio lavoro di supervisione di casi di minori che hanno subito gravi abusi interfamiliari, mi è capitato di vedere una bambina – adesso ha tredici anni, ma la presa in carico è avvenuta quando aveva sei anni – il cui padre e zio hanno subito un processo. Il padre è stato assolto sulla base delle richieste del Pubblico Ministero, sullo zio ancora non c’è decisione nonostante siano passati già quattro anni.

Il Tribunale per i Minorenni ha disposto che la madre veda la figlia solo durante incontri protetti, ma la madre fa di tutto per parlare con questa figlia al di fuori degli incontri protetti. Ad un certo punto gli insegnanti della bambina si sono accorti di questi tentativi della madre e lo hanno riferito alla struttura che accoglie la minore. La struttura interviene, nasce uno scontro tra gli operatori della struttura e la ragazzina, che reagisce violentemente e tenta più volte di fuggire sia dalla struttura, sia dalla scuola.

Gli operatori della struttura non sanno cosa fare e sono pieni di rabbia, in parte contro la ragazzina, ma, soprattutto, contro la madre. Mi comunicano questa situazione quando mi reco da loro per la consueta consulenza e io, su questo racconto, l’impressione che ho avuto è stata quella di una Comunità tutta impegnata a difendere una ragazzina da una famiglia persecutoria e colpevole.

Nel racconto che loro fanno, tuttavia, mi colpisce il fatto che la madre, pochi mesi dopo che la ragazzina era stata accolta aveva avuto un altro figlio e che quando lei lo ha saputo ha avuto una crisi di ansia e di pianto, ha detto che era preoccupata per la sua mamma perché non era capace di tenere i bambini e che voleva andare a casa per aiutare la mamma che senza di lei non poteva farcela.

Conclusione del discorso: il fatto che la ragazzina nei riguardi della madre mostrava un’affettività completamente antitetica a quella che aveva la struttura di accoglienza; la ragazzina vedeva sua madre non come una madre persecutrice, ma come una persona debole e fragile e quello che si stava verificando in lei era un conflitto di realtà, che le faceva vedere la scuola e la struttura di accoglienza come soggetti che andavano contro la madre, una madre che lei, invece, voleva difendere.

In questo caso l’intervento terapeutico doveva essere tutto teso a capire che questa ragazzina stava vivendo in modo lacerante questo conflitto di realtà – da un lato, indubbiamente, lei era affettivamente legata alla struttura che la stava accogliendo, dall’altro era legata anche alla mamma e la sua sofferenza era quella di vedere in conflitto queste due presenze nella sua vita – e la strategia doveva orientarsi a pensare alla madre come una persona bisognosa di aiuto, più che come a un nemico, da un lato, tenendo un colloquio – con lei sola e non il marito come era accaduto altre volte – per capire se effettivamente questa donna fosse condizionata, e dall’altro, cercando di parlare con la ragazzina per chiederle che cosa pensasse lei della mamma e se la vedeva ancora fragile e debole.

I fatti hanno poi dimostrato che questa modalità di intervento era corretta, perché la ragazzina dopo questo tipo di approccio si era rasserenata, non si erano verificati altri problemi nella struttura di accoglienza e si poteva valutare con più calma anche come procedere nei riguardi della scuola che, nel frattempo, non voleva riammetterla in classe.

Quindi: non appena scende la tensione fra operatori e genitori e, in casi come questo, nel cuore del minore si apre l’idea che ci possa essere uno spazio di incontro, cambia tutto! La persona diventa accessibile.

Un altro caso.

Un bambino di tre anni e mezzo accolto presso una casa famiglia. Un giorno, al ritorno da una visita medica, a un certo punto il bambino, in maniera apparentemente assolutamente inspiegabile, comincia a tirare i capelli e a tempestare di pugni e graffi una delle operatrici della struttura di accoglienza che aveva avuto da sempre un buon rapporto.

Qual è la storia di questo bambino?

Un giorno i carabinieri entrano, perché chiamati, in una casa popolare. Mentre vanno per le scale sentono che da un appartamento provengono le urla di una donna e di alcuni bambini. Bussano e trovano un tossicodipendente, la moglie, ex tossicodipendente, che si vede che è stata picchiata e questo bambino di tre anni e mezzo che piange disperato. Di fronte a questa scena i carabinieri prendono donna e bambino e li portano in una comunità di accoglienza dove restano per circa un mese.

In questo luogo la mamma racconta la sua storia, si lega abbastanza agli operatori, il bambino diventa un po’ la piccola mascotte della struttura di accoglienza finché non si verifica che la madre decide di andare via. L’equipe terapeutica comunica alla madre che poiché il bambino è stato affidato alla struttura di Servizi deve rimanere. Avviene così, ma il bambino comincia ad avere comportamenti sessualizzati molto evidenti e aggressioni fisiche – soprattutto verso i genitali degli operatori della comunità e degli altri bambini accolti – e la situazione per la struttura di accoglienza diventa in breve tempo assai difficile. In seduta con la terapeuta, il bambino racconta piano piano l’abuso sessuale subito.

Che cosa insegna questo caso?

Insegna che nel caso di questo bambino la presenza della madre aveva fatto da tappo e, per quanto per la clinica ogni caso fa capo a sé, qui si può pensare che la madre all’interno della struttura di accoglienza per un certo tempo ha pensato di poter controllare la situazione, ma ad un certo punto non ce l’ha fatta più ed è andata via.

Ora: è evidente che in queste storie, come in tante altre, dietro c’è qualcosa che non è sufficientemente chiara, ma resta il fatto che in un intervento terapeutico il primo passo è vedere i rapporti che intercorrono tra i minori e le loro famiglie, perché la tutela prima di tutto passa attraverso una verifica della posizione che assume la madre – questa, infatti, a secondo della sua condizione, può essere o più protettiva nei confronti della figlia/o, o più protettiva nei confronti del compagno – e il lavoro del terapeuta deve essere, prima di tutto, quello di fare luce sulle dinamiche relazionali e familiari e, poi, di indirizzare l’intervento all’interno delle stesse.

 

 

Disagio, sviluppo terapeutico e leggi

Di fronte a queste situazioni di degrado spesso ci si interroga sull’opportunità di un arresto, di una condanna di un genitore o di un affidamento operato d’autorità.

Io penso che sia un bene. È un bene per il genitore, perché l’unica sua speranza è quella che possa essere controllato, confrontato, curato, ed è un bene per il figlio, perché può tirare fuori tutta la sua sofferenza e può sperimentare che è un essere umano, in rapporto con altri esseri umani, e che nei comportamenti umani esistono regole e responsabilità.

Insomma, il processo, in situazioni di disagio grave e di abuso e/o maltrattamento, è il ritorno alla realtà, e questo ritorno alla realtà è la premessa per qualsiasi sviluppo terapeutico.

Il lavoro con le famiglie mi ha insegnato che nei riguardi di queste persone il pietismo è negativo, perché, in questo caso, il messaggio che passa è che con persone che vivono una qualche forma di disagio non esiste concretamente una possibilità di cambiamento. Al contrario penso che di fronte a situazioni gravi, il terapeuta, o persone che come per esempio il giudice – che deve prendere decisioni importanti – devono avere il coraggio, e la forza, di far capire a queste persone il loro sbaglio e anche di arrabbiarsi se è necessario, perché questo è il solo modo che permette loro di sentire che c’è chi lo cura e che chi lo cura ha fiducia nel cambiamento.

Nella relazione terapeutica noi abbiamo di fronte persone che hanno una grossa sofferenza. Il primo passo per aiutarli è indagare la loro infanzia e capire da quale esperienza vengono; il secondo passo sarà quello di condannare moralmente i suoi comportamenti – attenzione: i comportamenti, non la persona – infine – e questa una cosa che riguarda proprio il terapeuta – avere chiaro che la magistratura, la legge, sono degli alleati formidabili del lavoro terapeutico.

Io ho vissuto tempi in cui le leggi per chi viveva per esempio situazioni di tossicodipendenza erano molto dure – quando curavo i tossicodipendenti di piazza Navona, venivano arrestati i tossicodipendenti, ma venivano arrestati anche gli operatori – e tempi in cui le leggi per chi commetteva abusi sessuali erano molto morbide – in questi casi la ratio della legge era che si doveva salvaguardare l’interesse superiore della famiglia – oggi, invece, viviamo in una società che è riuscita, per quanto riguarda le problematiche che riguardano i tossicodipendenti o i minori abusati, a darsi leggi giuste, questo crea le condizioni per un miglior approccio terapeutico e da la possibilità di intervenire in modo estremamente positivo: lavorare insieme, unire autorità confrontativa e sforzo di attivazione delle risorse sono gli strumenti base per ogni lavoro psicoterapeutico.

 

Conclusioni

 

Concludo con un film, “La mala educación” di Pedro Almodóvar[1]. Propone una riflessione che conferma quello che ho trattato nei paragrafi precedenti.

Il film racconta la storia di due bambini – uno dei quali è lo stesso Almodóvar – di undici anni che si trovano in un collegio. Il responsabile di questo collegio, un sacerdote molto malato, si innamora del compagno di Almodóvar, si innamora della bellezza di questo ragazzino e in particolare della bellezza della sua voce. Questo sacerdote è geloso di questo bambino e quando scopre che ha un’amicizia speciale con l’altro bambino – Almodóvar – lo manda via per rimanere da solo con il bambino di cui si è innamorato. Dopo molti anni ad Alomodóvar si presenterà un ragazzo che dice di essere quel bambino – ma che in realtà è suo fratello – con un copione per fare un film in cui si racconta questa storia di violenza. A questo punto del film comincia la storia di questo bambino e la sua evoluzione.

Questo ragazzo, amato per la sua bellezza e per la sua voce bianca, non solo diventerà un travestito, ma diventerà anche un tossicodipendente che si prostituisce; nutrirà un grande bisogno di vendetta; cercherà quel sacerdote, che nel frattempo non è più tale, e lo ricatterà e alla fine, proprio quando aveva deciso di cambiare, morirà per overdose.

Come operatori, possiamo immaginare di riproporre la storia, ma con un intervento sui due ragazzini di undici anni. Immaginiamo che ci sia una denuncia, che arrivi la polizia e arresti il direttore del collegio, che si celebri il processo e che si cominci con il ragazzino il trattamento terapeutico…

Pensate che quel ragazzino sarebbe diventato comunque un travestito e un tossicodipendente?

Io penso che la possibilità che ciò non si sarebbe verificato non è aleatoria.

L’esperienza che come operatori facciamo ci insegna che le vittime di abusi sessuali – che da piccoli manifestavano comportamenti molto sessualizzati – in età adolescenziale – curati – avranno sì problemi con il sesso, ma questi andranno più nel senso della molta paura – la ricostituita unità del proprio corpo e l’idea che la propria identità non vada violata sono certamente elementi costitutivi della buona riuscita del percorso terapeutico – avranno comunque ferite, ma la cura, comunque, li cambia in positivo.

Allora la prima terapia è quella da fare con il minore, è un suo diritto, ed essa non sarà intervento di protezione, ma anche di ascolto e di confronto.

Ancora: se il protagonista del film a venticinque anni fosse arrivato in una comunità terapeutica, si sarebbe aperto per lui e con lui uno spazio per il lavoro terapeutico?

Quante volte quelli che operano con i tossicodipendenti si sono trovati di fronte a ragazzi/e che hanno raccontato, durante il percorso comunitario e nel corso del lavoro terapeutico, di abusi subiti nell’infanzia?

Alla fine, dunque, ci si occupa delle stesse cose: della ferita aperta, del trauma infantile del bambino, o delle cicatrice che quella ferita ha lasciato su quel ragazzo ormai adulto e, certo, con tecniche e problematiche diverse, alla fine ci si trova di fronte alla stessa situazione, perché sul bambino che ha subito traumi stiamo facendo prevenzione per la sua vita adulta.

La cura prima parte dal confronto e dal ristabilimento della realtà; chiede pazienza e tempo, coinvolge in vario modo – e anche in errori di diverso tipo – però è un percorso che vale la pena di essere tentato.

Proprio in questi giorni mi sono chiesto perché avessi deciso di fare lo psichiatra e mi sono detto che un motivo specifico in realtà non c’è, però, francamente, non riesco a immaginare che nella mia vita avrei potuto fare una cosa diversa da quella che faccio, e questo perché, secondo me, quello dello psicoterapeuta non solo è il lavoro più affascinate che ci sia, ma è anche quello potenzialmente più utile, perché, alla fine, il benessere degli uomini è fatto da tante cose, ma se uno è in equilibrio con se stesso ha bisogno di poco, tutto il resto conta fino ad un certo punto.

 

Nome:
Prof. Luigi Cancrini

Studi
Laurea in Medicina e Chirurgia – Università “La Sapienza” – Roma
Specializzazione in Clinica delle Malattie Nervose e Mentali – Università degli studi di Siena

Incarico:
Libero docente in psichiatria (dal 1971)
Direttore – Centro Studi Terapia Familiare e Relazionale – Roma (dal 1972 ad oggi)
Direttore scientifico delle Comunità Terapeutiche di Saman
Direttore del Centro di Aiuto al Bambino Maltrattato e alla Famiglia – Roma (dal 1998 ad oggi)
Esperto nel Consiglio di Amministrazione dell’EMCDDA – Palamento Europeo – Lisbona (dal 1997 al 2000)
Presidente Comitato Scientifico – Osservatorio Italiano Droga e Tossicodipendenza (2000)
Membro Commissione Nazionale AIDS – Ministero della Sanità (2000)

Altri incarichi e funzioni:
Assistente straordinario e poi ordinario di Clinica Psichiatrica – Istituto di Psichiatria – Università “La Sapienza” – (Roma) (dal 1971 al 1983)
Professore incaricato di Psicologia Clinica e di Psichiatria – Corso di Laurea Psicologia – Università “La Sapienza” (Roma) (dall’a.a. 1974/75 all’a.a. 1982/83)
Professore Associato di Clinica Psichiatrica – corso di Laurea in Medicina III Canale – Università “La Sapienza” (Roma) (dal 1983 al 1995)
Titolare Insegnamento Clinica Psichiatrica – corso di Laurea in Medicina III Canale – Università “La Sapienza” (Roma) (dal 1983 al 1995)
Docente di Psicoterapia – Scuola di Specializzazione Psichiatria – Università “La Sapienza” – Roma (dal 1969 al 1995)
Docente Psicoterapia – Scuole di Specializzazione Psichiatria – Rochester, Chicago (USA); Oslo, Tromso (Norvegia); Bilbao, Barcellona (Spagna); Buenos Aires (Argentina); Grenoble e Chambery (Francia); Neuchatel, Losanna (Svizzera); Padova, Pavia, Genova, Lecce, Bari, Napoli, Catania, Milano.
Didatta di Terapia Familiare – Centro Studi di terapia Familiare e Relazionale – Roma (dal 1972)
Ha fondato e presieduto la Società Italiana di Psicologia e Psicoterapia Relazionale (dal 1988 al 1990)
Ha ideato e diretto su richiesta del Governo Basco un programma quadriennale di formazione psicoterapeutica degli operatori impegnati nel settore alcool e tossicodipendenza di Bilbao (dal 1983 al 1986)
Ha ideato e diretto su richiesta della Municipalità di Barcellona un programma triennale di formazione psicoterapeutica degli operatori dei servizi sociali di Base (1991)
Ha ideato e diretto in quanto esperto – Progetto di prevenzione e terapia delle tossicodipendenze – Palermo (dal 1989 al 1992).
Ricchissima l’attività scientifica e di ricerca in Italia e all’estero e in essa vanta anche la pubblicazione di 19 libri, di cui 4 tradotti in altre lingue; 80 lavori in lingua italiana; 20 lavori su riviste e raccolte di saggi stranieri e più di 100 lavori sulle principali riviste italiane e straniere in tema di psicopatologie e tossicodipendenze.

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