Da oltre 35 anni diamo una risposta alle dipendenze creando un'alleanza terapeutica con gli Enti invianti, le famiglie e i soggetti coinvolti.

Il fenomeno tossicodipendenza

Il vissuto dell’esperienza nella  COMUNITÀ EMMANUEL 

Il racconto del Dott. Vincenzo Leone, responsabile del settore Dipendenze della Comunità Emmanuel è quello di chi ha vissuto sulla propria pelle gli albori e l’evoluzione delle Comunità Terapeutiche in Italia; dall’esperienza del servizio civile ai giorni nostri narra da un punto di vista diretto e privilegiato come il fenomeno dipendenze sia esploso e si sia evoluto in questi decenni. La sofferenza, l’AIDS, il supporto alle famiglie, l’alternativa al carcere e le risposte che la Comunità Emmanuel ha formulato aggiornandosi e modulando la propria proposta alle nuove esigenze terapeutiche.

 

a Giuseppe , Luciano , Alberto , Maurizio …

“i primi temerari sulle macchine volanti”

 accolti in Comunità Emmanuel

Il fenomeno tossicodipendenza

Il vissuto dell’esperienza nella Comunità Emmanuel
di Vincenzo Leone
Medico chirurgo specialista in:malattie infettive, psicoterapia, agopuntura medica. Perfezionato in Medicina delle farmaco-tossicodipendenze.

 

Scopo di questo lavoro è quello di esplorare il fenomeno della tossicodipendenza attraverso l’esperienza vissuta personalmente come Medico all’interno di una Comunità Terapeutica per tossicodipendenti.

Il titolo  evoca il dinamismo della narrazione, il racconto di un’avventura, perché tale considero l’esperienza oggetto dello studio: un’ avvincente storia umana e professionale cominciata all’inizio degli anni ’80.

A distanza di trent’anni  rimane il ricordo di un percorso di conoscenza di un fenomeno complesso, quello del mondo delle  dipendenze, sempre mutevole e in  evoluzione. È stato un viaggio scomodo ma affascinante, dove ragione, guadagno economico, carriera, sono rimasti sempre sullo sfondo. Nel percorrerlo riassaporo la tensione della sfida, l’entusiasmo della curiosità e il gusto dolce della sensazione di soddisfazione per la consapevolezza di percepire che ne è valsa la pena.

***

Il mio primo incontro con la tossicodipendenza è stato nell’Ospedale di Perugia, dove frequentavo il Pronto Soccorso, soprattutto la sera, sul tardi. Preferivo andarci a quell’ora: era un momento più tranquillo e i Medici in servizio avevano più tempo da dedicarmi per la clinica, facendomi fare qualche medicazione e, con le mani pesanti come un macigno, iniziare a suturare una ferita. Soprattutto potevo osservare come loro si muovevano nelle situazioni difficili di emergenza e come gestivano la relazione con il paziente e i loro familiari in apprensione.

Ma la sera, sul tardi, era anche l’ora in cui arrivavano i “drogati” in crisi di astinenza. Venivano al Pronto Soccorso per chiedere e richiedere – drammaticamente disperati e dispotici – con insistenza metadonepsicofarmaci, (quelli che a loro “facevano bene” e non le solite “porcherie” che il Medico consigliava). Arrivavano sconvolti, agitati, persi, in preda allo sconforto e alla spasmodica attesa-pretesa di assumere qualcosa per stordirsi, sballarsi, stonarsi. A volte arrivavano portati, lasciati cianotici in overdose, quasi morti. Mi sorprendeva che i Medici esperti che gestivano con disinvoltura casi disperati di emergenza (infarti, ictus, crisi respiratorie) non sapessero che fare dinanzi a quell’uragano di malessere, quella valanga di agitazione che irrompeva mettendo a soqquadro tutto il Pronto Soccorso. Io, in quello scompiglio, mi sentivo impotente con il cuore in gola, paralizzato e osservavo i Medici esperti e, con loro, tutto il personale sanitario in balia di quell’onda d’urto incontenibile. A volte era un “trip andato di traverso” o meglio come loro dicevano in gergo “un brutto viaggio” per indicare gli effetti sconsiderati dell’LSD.

Molti li avevo già visti: erano le stesse persone che su Corso Vannucci facevano colletta o erano solite starsene tranquille, sedute per ore sui gradini del Duomo. Tra loro, ancora qualcuno degli ultimi “hippies”, gli ultimi rappresentanti di una generazione che con costanza ostentava la scelta di rigettare la società, fuggendo da una realtà contestata e rifiutata, scegliendo di rifugiarsi in stati alterati della mente attraverso il ricorso alle sostanze psichedeliche. Quando potevano fuggivano ancora più lontano andando a cercare la dimensione mistico-esoterica del viaggio in Oriente.

È proprio l’Oriente che fornisce droga in grande quantità e a basso costo. L’Oriente che ingoiava migliaia di giovani “hippies” di tutto il mondo, assassinati da banditi e spacciatori, decimati dagli stenti e dalle malattie o stroncati dalle droghe. Ma la stagione degli “hippies” era al termine e del fallimento della grande illusione “hippy” erano figli quei gruppi di tossicodipendenti che incontravo sulle scalinate del Duomo di Perugia durante il giorno e che poi, di notte, irrompevano al Pronto Soccorso. Tossicodipendenti delusi, sfiduciati, incapaci di ribellarsi, riempivano il vuoto esistenziale con la droga.

Sono passati solo pochi anni dai variopinti vestiti degli “hippies” e dalla generazione “dei figli dei fiori”, dalle loro canzoni piene di sogni e di speranze. Ora i tossicodipendenti erano quei giovani sconfitti, sfiduciati, prigionieri di un cupo quotidiano senza futuro, incapaci di superare delusioni, di trovare motivazioni, di reggere e gestire la loro esistenza e che affidavano alla chimica delle sostanze l’incapacità di gestire la loro esistenza. La siringa è diventata la “spada” sporca del loro sangue, maneggiata negli anfratti più bui e sudici; replicano ogni giorno il rito della loro vendetta (ma di fatto celebravano la loro sconfitta) inconsapevoli d’essere loro stessi le vittime. L’hashish, l’LSD e le anfetamine venivano progressivamente sostituite dall’eroina. I luoghi, arricchiti da colorati poster impregnati di incenso, dove si ascoltava la musica e si raccontavano esperienze percepite attivando fenomeni psichedelici, sono ora sostituiti da squallidi ambienti dove regnano il torpore, il silenzio, il degrado. Dai visi dei giovani è scomparsa la luce dell’Eros, dai loro occhi spenti appare solo la cupa ombra di Thànatos (F. Avenia, Psicolinea).

Emblematica la testimonianza di V. Giusy:

“Ho iniziato a bucarmi nella seconda metà degli anni ’70; allora noi eroinomani eravamo in pochi. Negli anni ’80 il boom, si usciva da piccoli clan e da gruppi pseudopolitici , per “sbatterci” disperati, a fare le varie “storie”, ognuno con i mezzi che poteva per procurarsi i soldi per la droga, e poi, ritrovarsi nella stessa piazza di spaccio. Quando si era abbastanza “fatti” e si stava “bene”, si andava a guardare Cristiane F.: i ragazzi dello zoo di Berlino: in quegli occhi di attrice si idolatrava il proprio dolore e la propria sofferenza”.

In quel tempo io partecipavo a manifestazioni per la non violenza, agli incontri del WWF, amavo ascoltare i Pink Floyd e David Bowie e nel caldo dell’eskimo, della mia sciarpa di lana grossa, avvolto nell’ingenua quiete del mio tepore, non mi rendevo conto di tutto quel mondo  inquieto  che si affacciava gelido ad un solo palmo dal mio naso, così vicino e allo stesso tempo così lontano: io non conoscevo niente, ed ero così distante da quei giovani e dal loro mondo.

A qualche mese di distanza da quell’incontro-scontro al Pronto Soccorso (ora direi meglio non-incontro), a Lecce, una marcia della pace termina in anticipo per la pioggia e buona parte dei partecipanti trova riparo in una Chiesa. Io ero tra loro, quando un piccolo gesuita (Padre Mario Marafioti) dall’Altare fece un annuncio: “Abbiamo avviato da poco un servizio di accoglienza per tossicodipendenti. Ci sono tra voi volontari che desiderano aiutarci? C’è forse qualche giovane obiettore di coscienza che invece del militare vuole svolgere un servizio civile nella nostra Comunità?”.

Io, avevo presentato domanda di servizio civile e, senza pensarci molto, decisi di accettare e di svolgere l’attività nella Comunità Emmanuel.

Il primo giorno di servizio in comunità mi presentai con dei libri di Vittorino Andreoli, Luigi Cancrini, Mario Picchi: erano gli esperti in materia di droga che scrivevano sulla tossicodipendenza nei primi anni ’80. Andai dalla responsabile della Comunità e le dissi: “Non è facile aiutare queste persone, io lo voglio fare e voglio farlo bene. Per questo mi sono portato questi libri; ho bisogno di imparare, studiare, sapere!”. Enrica, una donna intelligente e saggia, mi rispose con il sorriso: “Tu sei di un paese a pochi chilometri dalla Comunità, se davvero vuoi imparare come aiutare meglio queste persone, la sera non tornartene a casa, rimani in Comunità; la notte studia i tuoi libri, ma durante il giorno non trascurare di vivere accanto a loro, condividi la giornata insieme a loro; impara dalla condivisione; fai esperienza di vita-con-vita” Non capivo la modalità che mi proponeva, ma quel sorriso e quello sguardo, disarmanti e accoglienti, mi incoraggiavano a credere e scommettere in quell’avventura: era il 1983.

 

COMUNITA’ EMMANUEL: Cenni storici e basi pedagogiche

La comunità Emmanuel nasce alla fine degli anni ‘80 a Lecce, dall’iniziativa di un gruppo di volontari che ,guidati nel cammino di fede da Padre Mario Marafioti s. j., lo hanno voluto incarnare nel servizio, accogliendo persone in difficoltà, in condizioni di disagio e di emarginazione. Nel settembre del 1980 si presentò il caso di una ragazza dimessa dall’ospedale psichiatrico, che non poteva rientrare nella sua famiglia, il passo decisivo avvenne, tuttavia, il 25 dicembre del 1980, quando Enrica Fuortes, lasciò la sua famiglia di origine per dar vita alla prima casa-famiglia della comunità nella condivisione di vita-con-vita. Inizialmente non si pensava di agire sulla tossicodipendenze, ma, come del resto accadrà per il resto delle successive iniziative della comunità, le iniziative non sono mai “nate a tavolino”, ma sempre come risposta dell’ascolto dei bisogni del territorio e alla disponibilità di servizio dei suoi volontari.

Il 24 dicembre del 1981, a un anno dalla sua nascita, la comunità Emmanuel accolse il suo primo tossicodipendente, si chiamava Massimo.  Da lì a poco ne arrivarono altri, cominciarono così ad aumentare, sempre più frastornati mentalmente e distrutti fisicamente.  I volontari ben presto si resero conto che il problema esigeva un intervento competente, strutturato con delle finalità psico-pedagogiche che andassero oltre la semplice disintossicazione.

In principio il piano terapeutico non era definito. Mettere vita-con-vita; condividere la sorte, le paure, i bisogni, i problemi; camminare, crescere insieme: questa era la prima terapia.  Per studiare i mezzi più adatti al fine, l’ umiltà consigliò agli operatori della comunità di mettersi in cammino e visitare altre comunità già operanti in Italia. Le comunicazioni avvenivano in piena libertà,  in un clima di ascolto e di amicizia. “Ascoltando i ragazzi – dice Padre Mario – aiutandoli a rivisitare il loro passato, seguendo i loro percorsi interiori e risalendo alle origini dei loro comportamenti, fino alle spinte inquiete provenienti dal fondo dei loro bisogni, desideri, paure, problemi, mi trovai come davanti ad uno specchio: là ero riflesso anch’io! Io incompiuto e minacciato, dall’infanzia all’adolescenza, alla giovinezza, all’età matura, tra bisogni, desideri, paure, problemi, in famiglia, nella società, nel tempo. Ascoltavo rispettoso, umile, stupito: loro erano come me e io come loro! Al di sotto delle cose fatte o subite c’erano le stesse fibre energie, tensioni, ricerche… Dentro tutti i cedimenti, errori e deviazioni c’erano le stesse profonde ambiguità, le tentazioni radicali della possessione e dell’orgoglio… E al di sopra dei singoli traguardi veri o irrisori c’era la stessa sete inestinguibile: la gioia e la felicità, il più, il tutto, l’infinito… Rileggendo nello specchio della loro storia, la mia, capii cos’era mancato loro nelle varie tappe della loro vita, cosa io avevo ricevuto in dono e cosa ero chiamato a testimoniare e offrire a ciascuno. Ripescai, con la memoria tutti i mezzi e gli strumenti che si erano rilevati utili e preziosi per il mio cammino e li adattai al loro”.  Così, semplicemente, esistenzialmente, da vita-con-vita , è nato il progetto educativo e l’itinerario pedagogico della comunità Emmanuel per i tossicodipendenti. Mettendolo in atto, nello sforzo di riprendere il cammino dal punto in cui la crescita della persona era rimasta bloccata, ferita, deviata, si sono poste le basi per una scuola di vita, volta ad apprendere l’arte di essere, rinascere, ricostruirsi. Coerentemente con queste premesse, s’integrò, al gruppo promotore, un gruppo di tecnici e specialisti che si occupavano della psicoterapia personale, della conduzione dei gruppi, della cura medica, dei problemi giudiziari e dell’addestramento dei giovani accolti alla ergoterapia e all’ attività nei vari laboratori.

 

  1. Il vissuto dell’esperienza

Quando iniziai il mio servizio nella Comunità Emmanuel erano presenti dodici ospiti. Era questo il termine che si usava nelle comunicazioni istituzionali per indicare le persone accolte in Comunità per un programma terapeutico. “Quanti ospiti avete attualmente in Comunità?”, chiedeva la Prefettura. Quando le comunicazioni arrivavano dai Servizi Pubblici delle tossicodipendenze (CMAS, GOT, Ser.T.), erano del tipo: “Ti invio l’utente…”. Per chi viveva in Comunità, Alberto, Giuseppe, Maurizio, Luciano, Vincenzo… erano un volto, un nome, una storia da incontrare, da con-tattare, da vivere. Di tutti noi conoscevamo sogni, tragedie, desideri, fatiche, limiti e attese: conoscerci, o almeno cercare di conoscerci, era uno dei primi obiettivi. Ricordo che al mio arrivo in Comunità, dopo aver visto la camera e il posto del letto a castello dove appoggiare la mia valigia, mi ritrovai subito in  ri-unione: incontro di accoglienza. Ed ecco, tredici persone in silenzio sedute in cerchio attorno al camino. Insieme a noi Enrica, Padre Mario e un volontario infermiere. Mi accolsero presentandosi: “sono Stefano, ho vent’anni anni, vengo da Milano, mi faccio da sei, sono in Comunità da due mesi, ho gli arresti domiciliari”. E più o meno, facendo il giro delle comunicazioni, così per tutti gli altri. Pensavo di fare anch’io la stessa cosa, ma a me toccava di raccontare la mia storia di vita. Era la prassi: chi faceva ingresso in Comunità, sia che venisse tradotto dal carcere, sia per chi arrivava ubriaco o “impasticcato” da psicofarmaci, sia per l’obiettore appena arrivato, era prassi presentarsi al gruppo e raccontare di sé, della propria vita. Il gruppo alla fine, ringraziava e poteva rimandare messaggi. Un battesimo sorprendente dalle emozioni forti. Ho trascorso venti mesi in Comunità con pochi giorni che non fossero sorprendenti ed emotivamente intensi.

Operatori e utenti lavoravamo l’uno accanto all’altro. Tutto si faceva insieme, pulire la cucina, preparare i pasti, spietrare la campagna, per poi per me ritornare ad essere il medico che faceva il medico, e non per questo perdere in professionalità.

La comunità accoglieva anche persone sottoposte a restrizione giuridica. Rosario, Stefano, Gino erano arrivati dal carcere e si trovavano in comunità agli arresti domiciliari. Con loro e dopo loro tanti  usufruivano di questa opportunità, cioè uscire dal carcere e scontare la pena detentiva in comunità terapeutica.

Se i tossicodipendenti in genere si portano dentro tanti problemi, quelli provenienti dal carcere ne hanno altri e più gravi. “Roba” in quell’ambiente non ne dovrebbe circolare, ma quando arriva è uno “sballo” totale. E con l’unica siringa “si fanno ” tutti! Dice Gianpaolo: ricordo che la sera in carcere passava l’infermiere con un vassoio colmo di psicofarmaci.

Al loro arrivo in comunità sono ancora schiavi di questo bisogno: stordirsi, addormentare la coscienza, perdersi nelle nebbie dell’apatia. Ma pian piano vengono sollecitati a reagire, vengono stimolati a impegnarsi, a confrontarsi, a vivere. Anche ragazzi che giungono in comunità per libera scelta possono avere avuto qualche esperienza di prigione, ma questa o è stata rimossa o appare lontana; per quelli che invece vengono direttamente dagli arresti, il carcere è l’esperienza del giorno prima, ce l’hanno ancora sulla pelle, fanno fatica ad allontanarne l’odore, e tendono ad instaurare gli stessi rapporti del clima carcerario anche nel gruppo, perchè sono portati a ricreare le stesse dinamiche del carcere, dove c’era il capo, il gregario, il carceriere, il “superiore”. Così il ragazzo appena arriva si guarda intorno e fa subito riferimento non al responsabile designato dalla comunità, ma a quello che ha la leadership “naturale”, che ha più fascino, più carisma, che appare il più forte ed è quindi più rispettato e temuto. Il carcere è un mondo che marchia a fuoco, generando solitudine, paura e aggressività latente pronta ad esplodere alla prima occasione; cose che nei ragazzi arrivati in comunità si leggono ancora negli occhi, si percepiscono nel tono della voce, nei gesti, negli atteggiamenti. L’esperienza del carcere non si dimentica facilmente. “L’inferno comincia quando ti chiudono la porta della cella alle spalle – confessa Andrea – da quel momento senti che la tua vita dipende dagli altri. Può venire la guerra o il terremoto, tu resti dentro, se nessuno viene ad aprirti. Poi pian piano cominci a conoscere le persone che contano, la legge non scritta, e ti adegui per sopravvivere; e a poco a poco scompari come persona”.

Durante la giornata, mentre si lavora si parla, si discute, si chiariscono situazioni, si comunicano sentimenti… ci ascoltiamo. Escono fuori, prendono forma, storie, vissuti inimmaginabili, emblematici per la carica emotiva che trasmettono:

FUORI (in strada)

“Sono in casa e suona il campanello. Un pugno nello stomaco: la polizia? Il pusher che vuole i soldi?” 

“Ero in ferie in Sardegna e mi facevo di LSD. Sono precipitato con la macchina in un burrone e là ci sono rimasto per quattro giorni. Non so se è successo veramente.” 

“Avevo tanta roba, tanti soldi, tanti amici. Finita la roba, senza soldi, ho perso gli amici.” 

“In ospedale per disintossicarmi: infilavo l’ago della roba nella gomma della flebo.”

DENTRO (in carcere)

“I carabinieri sono venuti di notte ad arrestarmi. Ho ancora davanti agli occhi mia madre e mia sorella che piangono.”

“La mancanza di colori mi colpiva come un dolore fisico.”

“C’erano ventisei letti e un concentrato di cattiveria. Ci si picchiava solo con uno sguardo. Il mio cuore diventava sempre più duro, senza coscienza. Quando mi dissero che era morto mio padre, tanto ero rabbioso che non ho versato una lacrima.”

“Avevo 19 anni, di notte solo al buio avevo paura! Mi picchiavano perché mi lamentavo. Di notte quante grida! Io allora me ne stavo zitto ed impotente!”

IN COMUNITA’ (per la libertà)

“Non riesco ancora a crederci che ieri stavo in una cella con le sbarre e, stamattina, mi son svegliato e ho visto il sole, ho toccato gli alberi, respiravo a pieni polmoni sotto il cielo, io libero.”

“La sera, tra l’altro, ho l’impegno di far rientrare le galline nel pollaio e penso a quando, puntualmente, mi rinchiudevano, come carne priva di vita in cella ibernatrice dei miei sentimenti.”

“Sto scoprendo di essere una bella persona, anche se ho difetti e problemi.”

“Vedevo parecchi ragazzi che abbandonavano il cammino, ma loro erano “liberi”. Se L’avessi fatto io, sarei andato incontro a conseguenze, ad una denuncia per evasione. Per questo e solo per questo mi sono fermato. Parecchie volte sono stato sul punto di andarmene, e poi, il pensiero di tornare in carcere mi ha fatto fermare. Ora posso dire che grazie alla misura “detentiva” ho continuato il mio cammino e sono arrivato ad oggi, libero e con tanta voglia di continuare.”

“Sono stato a casa in “prova” per cinque giorni, e sono tornato con più entusiasmo. Voglio trasmettere questo mio stato d’animo a tutto il gruppo. Anche come ringraziamento perché il gruppo mi ha aiutato nei momenti difficili. Ora voglio essere io ad aiutare gli altri, perché capisco quanto sia duro lasciare per noi una mentalità per abbracciarne un’altra, veramente umana.”

“La libertà che tanto aspettavo non era quella che mi ha dato il Giudice, il tribunale; la libertà vera è necessari che la cerchi dentro di me, senza bruciarmi ancora. Ecco perché, nonostante oggi sia libero da vincoli giudiziari, ho deciso di continuare il mio cammino. Posso e voglio ritrovare me stesso, la mia vera libertà”.

La giornata iniziava alle 6.45, pochi minuti per mettere in ordine il proprio letto, provvedere all’igiene personale e raggiungere la sala degli incontri. Un programma della giornata strutturato e rigido, almeno all’esterno, ma altamente imprevedibile e creativo nei contenuti, perché riempito dalle vicende delle persone che vivevano in Comunità, dalle loro emozioni, stati d’animo, scelte, “colpi di testa”.  Io avevo l’impegno di far rispettare gli orari, organizzare le attività, “confrontare”, cioè intervenire dicendo: “Non hai portato a termine il tuo compito, una parte del salone è rimasto sporco, torna a lavarlo!”. Per me un compito sgradevole, difficile e faticoso. Mi costava molto eseguirlo. Credo che me lo avessero dato proprio per questo; faceva parte della strategia pedagogica, per allenarmi alla assertività, dicevano, e anch’io ero in cura come loro. La sera nel momento della verifica (rivisitazione della giornata trascorsa), nella comunicazione dei vissuti e dei sentimenti, mi accorgevo di aver osservato quindici persone e di aver avuto trenta occhi puntati su di me, pronti a scrutare e registrare i miei modi di fare e gli effetti che il mio comportamento aveva avuto su di loro. Costituiva una prassi non solo dell’Emmanuel, ma erano modalità e strumenti comuni anche in altre comunità: fino a quando un uomo non confronta se stesso negli occhi e nei cuori degli altri, scappa. Fino a che non permette loro di condividere i suoi segreti, non ha scampo da questi, timoroso di essere conosciuto, né può conoscere se stesso né gli altri, sarà solo. Dove altro se non nei nostri punti di vista comuni possiamo trovare un tale specchio? Qui insieme una persona può manifestarsi chiaramente a sé stessa, non come il gigante dei suoi sogni né il nano delle sue paure, ma come un uomo parte di un tutto con il contributo da offrire. Su questo terreno, noi possiamo mettere radici e crescere, non più soli come nella morte, ma vivi a noi stessi e agli altri.

Pippo comunica il suo vissuto: comincia a tirar fuori con voce apparentemente tranquilla i suoi motivi di risentimento. Non gli è stato bene che Sebastiano gli abbia fatto osservazione per la pulizia della stanza: “Mi sono sentito trattare da incapace!”. Di colpo, dall’esposizione calma, pacata, comincia a gridare. È soprattutto rabbia quello che si avverte dalla voce. Il volto pallido gli si è gonfiato e fatto violaceo, i muscoli sono contratti e tesi, le vene del collo sembrano scoppiare per quanto sono turgide, la bocca contorta nel disprezzo del compagno, continua a vomitare rimproveri, e davanti a lui Sebastiano rimane impassibile, come vuole la regola, finché l’altro non abbia terminato il suo sfogo. La comunità come fabbrica di emozioni da governare. L’intensità della vita comunitaria e le dinamiche proprie del programma terapeutico costituivano il luogo ideale per scoprire modalità comportamentali, comunicative e verificarne gli effetti che producevano nella relazione. Questa modalità di osservare, conoscersi, sperimentare gli effetti del proprio comportamento (anche verificandone le conseguenze) era prassi quotidiana e si poteva esperire grazie “all’ambiente protetto”, sentito caldo, rassicurante, ma anche fortemente stimolante della comunità. “Si piange, si ride con facilità, tutto è un vibrare di emozioni; sento il calore dello stare insieme” (da “diario di bordo della Comunità” 1985).

Il programma terapeutico utilizza l’Analisi Transazionale (AT) e il linguaggio colloquiale di E. Berne, avvicinando lo strumento tecnico al mondo delle cose e dei fatti che avvengono quotidianamente tra le persone (utenti e operatori) che vivono in Comunità. Dalle testimonianze e dai vissuti delle persone che si accoglievano in quegli anni, ci rendevamo conto che l’instaurarsi dello stato di tossicodipendenza, non avveniva per caso. Curiosità, noia, voglia di trasgressione, pur avendo un ruolo soprattutto per il primo contatto con le droghe, non giustificavano certo la drammatica esperienza di autodistruzione e annientamento fisico-psicologico-sociale di tante vite. La tossicodipendenza appariva essere il punto di arrivo, la parte terminale di innumerevoli punti di partenza, riconducibili sommariamente alla confluenza di quello che Bergeret chiamava “tripolarità della tossicomania”: di ogni tossicomania il primo polo concerne il prodotto utilizzato e la sua azione sull’organismo; il secondo riguarda la personalità del tossicodipendente e tutti i dati affettivi che vi sono legati; il terzo polo concerne il ruolo giocato sul tossicomane dai diversi ambienti con i quali è venuto in contatto fin dalla prima infanzia o attraverso i quali è stato condotto ad evolversi in seguito.

La tossicodipendenza era qualcosa-altro del semplice uso di sostanze. Il concetto di tripolarità indicato da J. Bergeret, giustificava il riconoscimento della tossicodipendenza come fenomeno complesso caratterizzato dal coinvolgimento, in varia misura e con pari dignità di aspetti biologici, psicologici e socio-ambientali. In quegli anni, inizio degli anni ’80, erano frequenti gli scontri nei dibattiti, dove era forte la tendenza a ridurre il fenomeno a uno solo degli aspetti (biologico, psicologico, socio-culturale) valorizzando una sola delle polarità a discapito delle altre. Non c’era convegno in cui non mancava un confronto conflittuale tra operatori delle Comunità e quelli dei Servizi Pubblici: gli uni accusati di essere indottrinatori, gli altri di essere diventati distributori automatici di metadone. Un lungo cammino faticoso con errori, dispute e contraddizioni. Scriveva V. Andreoli: “La tossicodipendenza è un personaggio a tre volti, il tentativo di ridurre il fenomeno alla sola dimensione medica e di fare degli operatori sanitari gli specifici terapeuti ha indotto una notevole quantità di miti e di errori”.10 Quando avevo iniziato il mio servizio civile in comunità c’erano solo dodici persone accolte. Dopo venti mesi erano già più di 200. Nel 1990 sarebbero diventati circa 1.000. Ho continuato a svolgere del volontariato, frequentando il reparto di Psichiatria all’Ospedale, al mattino, e il pomeriggio in Comunità. Intanto i “ragazzi” aumentavano e si aprivano nuove sedi di accoglienza dell’Emmanuel sia in Puglia che in altre regioni. Quindi, la scelta di occuparmi a tempo pieno in comunità e sempre più vicino a chi manifestava i segni e i sintomi dell’AIDS. Tanti giovani che ormai, sconfitta la tossicodipendenza, erano chiamati a combattere un’altra battaglia: l’infezione da HIV. Sperimentavamo che, accanto alla sofferenza proprie della malattia, questi malati dovevano sopportare dolori aggiuntivi provocati dall’ignoranza, dalla paura della discriminazione. In genere, quando una persona soffre per una grave malattia, ancor di più, quando si tratta di bambini, di giovani vite, si percepisce solidarietà, sostegno. Qui, all’opposto, attorno al malato, si faceva il vuoto: il dramma nel dramma di tante vite spezzate da un virus nuovo che incuteva paura e richiamava immagini desolanti di manzoniana memoria. In quegli anni nella comunità Emmanuel il 40% delle persone accolte erano positive all’HIV: molti di loro sono morti. Erano gli anni in cui p. Mario Marafioti scriveva: “ogni mese nella comunità Emmanuel, a causa  dell’AIDS, muore qualcuno, e altri per lo stesso motivo si sentono “inseguiti” ogni giorno. È necessario superare la paura e imparare a confrontarsi e dialogare con la morte, sfuggendo alla tentazione di ignorarla, rimuoverla, esorcizzarla. Così l’esperienza della morte rimanda al valore della vita nel tempo e oltre il tempo; il percorso pedagogico educa tutti, volontari e persone accolte, a divenire di giorno in giorno amanti della vita, familiari della morte, pellegrini della speranza”.

Ricordo la storia di Roberto, uno dei primi malati di AIDS, verso la fine degli anni ‘80, dopo aver terminato il programma terapeutico ritornò a casa, per poi ritornare subito in comunità. Cos’ era successo? Ci raccontò che quando era a Lecce aveva periodicamente la febbre, il fiato corto, riusciva a camminare a fatica, ma non si sentiva malato. Durante la giornata riusciva sempre a trovarsi qualcosa da fare, partecipava agli incontri, lo cercavano, lo ascoltavano. “A casa mi sentivo inutile – disse – ma ancor peggio mi sono sentito nell’ assistere alla scena che si presentò dinanzi ai miei occhi, è stato grande il dolore, la rabbia, la tristezza che ho provato quando, scendendo dall’ascensore, mi sono accorto che la vecchietta che abitava come me al quarto piano, per non prendere l’ascensore che avevo preso io, carica delle borse della spesa, decise di farsi quattro piani di scale a piedi pur di non entrare nell’ascensore. Fu allora che compresi perché non avevamo visite e nessuno veniva a trovarmi. La sera telefonai e chiesi di ritornare in comunità”.

Erano tanti gli ammalati, organizzammo un servizio di accoglienza capace di prendersi cura della persona malata non solo dal punto di vista sanitario. Tra la fine degli anni ‘80 e l’inizio degli anni ‘90 i reparti dell’ospedale Sacco di Milano, del Policlinico di Bari, dell’Amedeo di Savoia di Torino, sembravano una succursale della comunità Emmanuel. Io, Agnese Simi, Enrica Fuortes trascorrevamo tanto tempo in ospedale, vicino “ai ragazzi” ricoverati che sembravamo personale aggiunto al reparto.

Non riuscivo ad abituarmi, ad assuefarmi a quel dolore, a quella sofferenza, e, come medico, alla frustrazione che provavo ogni volta che mi accostavo al letto di un malato morente. Difficoltà e senso di frustrazione non venivano sanati da una specializzazione in malattie infettive, o da una maggiore conoscenza tecnica. Mi accorgevo, invece, che mi aiutava ad allentare la morsa allo stomaco l’atteggiamento di abbandono, l’allontanarmi dalla voglia di fare (dover fare) assolutamente qualcosa a tutti i costi. Sperimenterò gradualmente l’importanza del passaggio obbligato della morte, del mio morire: nell’orgoglio, nelle mie sicurezze, nelle mie ragioni. Lasciare posto alla possibilità di presentarmi nell’incontro con l’altro, libero da pretese, come medico dis-armato, senza mezzi, solo da uomo a uomo, vita a vita, vissuto a vissuto.

Sono stati gli anni e i momenti in cui ho riscoperto e sentito il conforto della fede. Mi rincuoravano le parole di p. Mario “… divenire di giorno in giorno amanti della vita, familiari della morte, pellegrini della speranza”.

Insieme all’HIV altri virus erano responsabili delle patologie correlate alla tossicodipendenza: il 20% delle persone in comunità avevano già infezione da virus dell’epatite B (HBV) e spesso anche con una coinfezione Delta (HDV). Ma ancora più preoccupante il dato che negli esami di routine che eseguivamo, riscontravamo che nel 60-85% dei casi, le persone accolte in comunità avevano contratto una da patologia virus dell’epatite C.

Nel disegno che segue ho voluto riportare in maniera umoristica il dramma della condizione di continuo rischio infettivo per il tossicodipendente: è emblematico il titolo “vita da tossico”, suggerito  da chi ha “vissuto sulla propria pelle” la condizione di essere  continuamente inseguiti dai virus HIV, HCV, HBV e HDV.

(vedi disegno nella slideshow superiore)

Le figure utilizzate sottolineano l’importanza, già a partire dai primi anni ‘80, dell’impegno per la prevenzione delle malattie correlate all’uso di droga  attraverso l’informazione, il counseling, il sostegno psicologico. Attività rivolte in particolar modo a gruppi specifici, al fine di aumentare la percezione del rischio, l’acquisizione di conoscenze e a favorire la motivazione, per  modificare e ridurre i comportamenti a rischio di infezione. L’utilizzo di vignette testimonia il ricorso a modalità inconsuete di comunicazione e di azione.

Nell’epoca dell’AIDS, a partire dalla Conferenza Nazionale sulla droga tenutasi a Palermo nel 1993, i servizi per le tossicodipendenze, e in modo particolare quelli pubblici SerT, propongono strategie cosiddette di riduzione del danno. Nell’ambito della diversificazione e integrazione dell’intervento la comunità Emmanuel struttura e avvia centri specialistici per il trattamento della crisi di astinenza che saranno chiamati “centri crisi e orientamento” in riferimento agli obiettivi, cioè trattare il malessere droga specifico della crisi di astinenza, e far nascere e sostenere un’altra crisi, un conflitto interno, capace di indurre una curiosità, un desiderio per una motivazione di cambiamento verso un personale progetto di affrancamento dalle dipendenze.

CONCLUSIONI

Vivere per venti mesi in una comunità terapeutica per tossicodipendenti in forma residenziale, con loro, nell’esperienza della condivisione, vita-con-vita, è stata occasione straordinaria di formazione dal punto di vista umano e professionale. La partecipazione alle attività e alle dinamiche proprie della vita comunitaria, il vivere insieme a loro con lo sguardo libero da pregiudizi, rispettoso della diversità e della dignità delle persone con il loro mondo, così come si presentava, mi ha permesso di comprendere il fenomeno della tossicodipendenza per quello che è, non per un sentito dire o attraverso letture di libri, ma direttamente dalla vicinanza corpo a corpo, vissuto a vissuto, con esistenze di carne e di sangue. L’esperienza della vita comunitaria, vissuta in quel modo giorno-dopo-giorno, incontro-dopo-incontro, è stata l’opportunità per misurarmi con i miei limiti, paure, certezze. L’altro di fronte a me è stato lo specchio prezioso che mi rimandava modi di fare, di comunicare, di pensare. E la comunità il luogo, la palestra dove poter sperimentare comportamenti e scoprire quali avevano per me, per noi, più valore. Accogliere  , farsi prossimo,  domandarsi chi è l’altro di fonte a me , cercare di comprendere la sua visione  ,  il suo modo di vedere  e di  stare nel mondo ,leggere e sostenere la fatica di tante storie  di sofferenza e di  ferite mi ha fatto crescere nella competenza della relazione d’aiuto.

Inoltre quella scelta di vita, faticosa e intensa, mi restituiva il risultato di un lavoro di co-costruzione di un uomo nuovo. Le dinamiche proprie della vita con-divisa, dell’emozionarsi insieme in quello spicchio di mondo, come era la comunità Emmanuel dei primi anni ’80 e quel gruppo di drogati, come un tornio avevano dato forma diversa al mio comportamento. Si realizzava probabilmente un po’ di quello che G. Di Petta indicava come un “ viaggio di ognuno verso sé attraverso un altro”.

La mia risorsa più grande era la capacità di riconoscere e gestire emozioni sentimenti ,stati d’animo  e la comunità terapeutica costituiva l’opificio ideale e, al tempo stesso, il palcoscenico di rappresentazione del movimento affettivo.  Tanti gli eventi, le occasioni, i momenti in cui ho potuto condividere il dolore, la rabbia, la tristezza:

– nelle notti trascorse vicino a chi, scoppiato, chiedeva aiuto a smaltire il disagio psico-fisico della crisi di astinenza;

– nel sostenere ogni giorno, giorno dopo giorno, la motivazione di chi faceva più fatica a credere in un cammino di recupero lungo e faticoso;

– nel contenere le fughe nelle facili scorciatoie e le pretese del tutto-e-subito; nella difficoltà a cedere;

– nel non volermi arrendere dinanzi al disfacimento del giovane corpo colpito dall’ AIDS.

Ma ho toccato, sentito, partecipato insieme a loro anche la gioia dell’obiettivo raggiunto: il sorriso dei figli che ri-incontrano il papà, il marito ri-trovato, il pianto della madre che ri-abbraccia il figlio precedentemente dato per perso.

Potevo provare tutto questo, condividere l’esperienza per mezzo della relazione empatica che lì, in quel momento, per diversi fattori (ambientali, individuali, di gruppo) veniva più facilmente stimolata ed esercitata. Si concretizzavano le parole di  Edith Stein: “l’empatia è l’atto mediante il quale l’essere umano si costituisce attraverso l’esperienza della alterità”12  e che io nella  comunità Emmanuel , attraverso l’esperienza di vita-con-vita ho potuto vivere e realizzare.

 

RINGRAZIAMENTI

Nell’era delle neuroscienze e degli studi di Rizzolatti sui neuroni specchio, ringrazio mia madre che per prima, senza saperlo, quando ero bambino, mi istruiva nell’arte dell’empatia attraverso la sua testimonianza.

Credo di aver iniziato ad apprendere l’ascolto empatico guardando mia madre. Donna semplice, che faceva la negoziante: spesso alcuni clienti venivano al negozio non per comprare qualcosa,  ma solo per parlare con lei.  Mi colpiva, di mia madre, il suo modo di sapere accogliere e ascoltare.

Partecipava in silenzio a far sentire l’altro importante e la sua storia speciale e significativa, anche se di fatto raccontava qualcosa di già detto, di già sentito.

Lei ascoltava sempre attivamente, con lo stesso interesse e la stessa curiosità di quando si ascolta una storia per la prima volta.

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