Da oltre 35 anni diamo una risposta alle dipendenze creando un'alleanza terapeutica con gli Enti invianti, le famiglie e i soggetti coinvolti.

Metodologia dell’intervento nella Comunità Emmanuel: La relazione

di Vincenzo Abbracciavento

(Articolo tratto da Notizie Emmanuel, Anno XXXV, n.1-2, Gennaio/Febbraio, 2016)

«All’uscita di scuola i ragazzi vendevano libri»…

 

Quante volte siamo passati davanti a una scuola e abbiamo osservato quella fantastica esplosione di incontri e relazioni che si incrociano e si disperdono. Quella strana atmosfera di felicità che si libera e riempie tutte le solitudini anche solo per pochi attimi.

All’uscita di scuola, anche se tardi, avevo l’abitudine di coinvolgere i miei amici a non rientrare subito a casa, ma a fermarsi a giocare a calcio, in uno spiazzo adiacente la scuola, 10-20 minuti al massimo, il tempo che partissero gli ultimi autobus che accompagnavano gli alunni venuti dalla campagna. Il pomeriggio per loro era fatto di solitudine, lavoro nei campi e poco altro. Quei momenti fugaci, subito dopo le lezioni, rappresentavano una delle poche possibilità di giocare insieme agli altri. C’erano i numeri per una squadra e la partita era una partita vera. Quante sfide e sbucciature di ginocchia! Mi ricordo che dall’età di 8 fino ai 14 anni le mie ginocchia sono state sempre ammaccate. Era il prezzo da pagare a quei pochi minuti di felicità.

Quelle partite erano senza intermediazioni di regole o di adulti. Le regole si facevano sul momento, venivano condivise e chiarite, e tutto filava liscio più o meno fino alla conclusione della partita. E come dimenticare il potere di chi portava il pallone migliore! Su quello spiazzo fatto di erba e di sassi si consumavano le prime scaramucce, i primi scontri e le prime mediazioni. Ognuno buttava nella mischia tutto se stesso uscendone diverso. Il risultato della partita svaniva dopo qualche minuto, rimanevano le sbucciature alle ginocchia e le emozioni, quelle vere, quelle forti, quelle che si imprimono nella memoria e ti accompagnano per tutta la vita, o rimangono nella soffitta dei ricordi e ogni tanto riemergono. Il rientro a casa, verso le 14,00 non era semplice, nel breve tragitto fino a casa bisognava trovare una giustificazione plausibile al ritardo. Tutto era smascherato da evidenti “segni di battaglia” e dal sudore grondante non giustificato dalle basse temperature. Il rimprovero di mia madre era sempre dolce e mai prevedibile, ma quando arrivava lasciava il segno e produceva frutti… Questa mia voglia/desiderio di mettere insieme le persone per realizzare qualcosa: una partita di calcio, un incontro di preghiera, un’attività ludica, suonare… mi spingeva e mi appassionava in modo automatico. Mi piaceva incontrare e far incontrare le persone. In quelle relazioni sono cresciuto, e sono cresciute le scelte della mia vita. A volte ho nostalgia di quei momenti. Vorrei quasi riviverli per rimettere a posto qualcosa di sbagliato, per avere più tempo per qualche amico, o per imparare qualcosa che ho trascurato.

Rivivere tutto questo non è possibile, mi accorgo tuttavia che non tutto è perduto, soprattutto le relazioni. Senza ombra di dubbio riconosco che senza quelle relazioni, che si sono prese cura di me, la mia via sarebbe rimasta un albero senza foglie e senza frutti. Quelle relazioni mi hanno potato dolcemente e hanno permesso all’albero della mia vita di non sbilanciarsi molto, di rimanere in piedi e di portare qualche frutto.

 

Le relazioni. Nel servizio nella Comunità Emmanuel sono centrali. Hanno lo scopo di far riposizionare tutti rispetto al rapporto con se stessi, al compito, ai comportamenti disfunzionali, alle aspettative che ciascuno ha dell’altro e sull’altro, alla propria storia e al contesto di riferimento (famiglia, amici, società…).

 

 

La relazione con se stesso e la cura di se stesso

Nel ragazzo che decide di entrare nella Comunità Emmanuel la prima relazione che cambia è quella con se stesso.

 

In tutte le fasi del percorso terapeutico è estremamente importante e significativo il rapporto con se stessi e la cura di sé. Se nella prima fase molta importanza viene data alla parte, diciamo esteriore, gradualmente gli obiettivi da raggiungere diventano più impegnativi e difficili. Si comincia dalla superficie, e gradualmente si scende in profondità. In questa fase particolare importanza si presta a quegli aspetti di sé più nascosti e mimetizzati. Quei nascondigli che in molti casi hanno permesso alla dipendenza di sopravvivere per lunghi anni. In questa fase ogni accolto viene sollecitato a riconoscere, e a prendersi cura, di quelle parti di sé più difficili e problematiche, in un confronto/scambio continuo con quegli aspetti di se stessi che emergono quotidianamente. Prendersi cura di sé senza delegare, o appoggiarsi agli altri in maniera sbagliata perché orientata alla ricerca di una stampella che renda meno insicuri e vacillanti. Gli operatori e il gruppo sono lì, ma lo sforzo del prendersi cura di sé deve partire da ognuno come un forte desiderio/volontà di cambiamento. Il germoglio dei primi periodi non è sinonimo di soluzione e di vittoria, la “piantina” che via via cresce, va protetta dalle intemperie, concimata per irrobustire le radici, potata per renderla più salda, rafforzata contro gli attacchi esterni. Ricostruire una relazione nuova con se stessi e prendersene costantemente cura è un allenamento necessario per prepararsi, e assaporare, la bellezza della vita futura.

 

In questa fase del percorso, senza che se ne accorgano, le persone cambiano il loro rapporto con se stessi o, piano piano, si appropriano oltre che di una migliore cura di sé, di una maggiore autostima, della propensione a guardare gli altri in modo positivo e propositivo: uno sguardo nuovo, che parte da sé, e che gradualmente si apre all’esterno.

 

La relazione con il gruppo e la cura del gruppo

Nelle relazioni spesso emergono grandi intese e, in alcune circostanze, esplodono aspri conflitti.

 

In tutte le fasi del cammino di recupero il conflitto è alle porte.

Se nella fase intermedia il conflitto può apparire più impulsivo e guidato da ragioni inconsce, poi gradualmente si affievolisce e le persone diventano più capaci di gestire il confronto e di essere in grado di aiutare gli altri. Spesso leggo nei loro occhi la soddisfazione/gratificazione di essere stati utili e importanti per un amico di gruppo, e questa capacità/abilità diventa evidente quando qualcuno decide di abbandonare la Comunità: tutti, in modo spontaneo e automatico, sono spinti ad andare incontro al compagno in crisi e molto spesso riescono ad aiutarlo a riflettere e a cambiare idea. Chissà quante volte accade questo piccolo miracolo senza che nessuno se ne accorga! Avere la percezione di aver appreso i segreti del funzionamento delle relazioni mette gli accolti in una posizione di potere sui loro problemi. Una volta una madre mi disse che il figlio durante la prova a casa li aveva messi in terapia facendo vedere i problemi che avevano, e questo li aveva stupiti e meravigliati. La continua ridefinizione del rapporto con se stesso all’interno della relazione con gli altri compagni di cammino è forse la parte più spontanea e indolore della terapia in Comunità. La relazione con il gruppo cura se stessi ogni qualvolta i rimandi che ci giungono, direttamente e indirettamente, ci colpiscono e ci cambiano. Questa terapia, per così dire inconsapevole/implicita, colpisce tutti, anche gli operatori: migliora e proietta nella direzione/percorso/itinerario della cura. In tutti i contesti e gruppi di persone che condividono un obiettivo comune esiste un orientamento comune che spinge nella direzione del cambiamento. Ogni gesto, ogni compito, ogni messaggio, anche se talvolta carico di ambiguità, sottintesi e bugie, va comunque verso il cambiamento e spinge verso la meta. Esplicitare un vissuto, accogliere quello dell’altro, esprimere un’opinione personale creano un effetto che, prima o poi, casualmente o volutamente, colpisce nel segno e abbatte i muri di difesa dove si arroccano i problemi più ostici e inattaccabili. Paure, convinzioni sbagliate, convinzioni e posizioni egoistiche e difensive gradualmente si sgretolano fino a fare emergere la vera natura della persona, la sua identità più nascosta, la parte luminosa della vita.

Questo passaggio in tutto il percorso comunitario avviene sempre, ma è più intenso e decisivo nella terza fase del cammino – quella dell’Esserterapia – perché è come la maturazione di una pianta o di un frutto, avviene nella stagione giusta, nel tempo opportuno. A volte mi interrogo sul valore del tempo nella terapia comunitaria e penso proprio alla metafora della terra: ci vuole il tempo! E il tempo dei primi raccolti si intravede solo dopo un anno di vita comunitaria, appunto questa terza fase! Ci sono processi fisici e mentali che hanno bisogno almeno di un anno.

 

Quello delle relazioni è il campo più delicato e importante, ha bisogno di prove e “riprove”, collaudi e rettifiche, cadute e rialzate, discese e risalite. Gli anni successivi servono a correggere gli errori dell’anno precedente e a valorizzare conquiste ed esperienze.

 

La relazione con la famiglia e la propria storia, e la cura della propria famiglia e della propria storia.

Già dal primo mese di Comunità si chiede agli accolti di scrivere la propria storia di vita. Questa storia è la prima di una serie. Generalmente viene scritta nuovamente nelle fasi successive.

 

Ricordando e vivendo, ascoltando le vite degli altri e fermandosi a riflettere sui perché e sul senso del passato e del “qui e ora” ci si scopre. La propria storia in relazione alla propria famiglia, inevitabilmente, fa emergere vissuti antichi, apparentemente impolverati e insignificanti; quando poi questi vissuti riemergono, risplendono in tutto il loro significato e valore. Il lavoro psicoterapeutico in questa fase diventa maggiormente richiesto e significativo. Per affrontare questo lavoro, anche se emotivo e psicologico, bisogna avere il coraggio di rimettere ordine. Buttare via qualcosa, conservare i ricordi preziosi. Questo esercizio, che spesso vediamo rappresentato e condensato in poche ore, è un lavoro lungo e faticoso. Non sempre si riesce a fare. Spesso si sfugge e si rimuove quello che fa male. Negli ultimi tempi nel nostro lavoro di accoglienza registriamo che le famiglie sono sempre più periferiche e distanti dal percorso dei congiunti in cammino. Alcuni accolti non vogliono coinvolgerli per non vivere il senso di colpa che vive ogni componente di una famiglia quando esiste una sofferenza, ma la vera autostrada che accelera il cammino rimane senz’altro quel cambiamento che riguarda non solo la persona in cammino, ma anche la sua famiglia. Potremmo dire che l’efficacia di un percorso terapeutico si può misurare sul coinvolgimento/partecipazione della famiglia. Anche i fallimenti spesso dipendono dalle resistenze o dai silenzi che si vivono nei contesti familiari.

 

La Comunità in modo delicato, ma deciso, deve rompere le resistenze e dare voce ai silenzi delle famiglie, soprattutto quando il coinvolgimento non c’è o quando si vuole girare pagina troppo in fretta senza averne capito il significato. Prendersi cura della propria storia, riscoprirla, soprattutto in relazione alla storia della propria famiglia, squarcia il velo delle paure più antiche e riattiva energie nuove nel contesto familiare e nelle sue relazioni. Quando questo viene avviato in Comunità continua anche dopo la comunità. Spesso le famiglie, o gli ex accolti, chiamano o ritornano in Comunità per una chiacchierata, o per chiedere un consiglio, o per condividere una gioia o una fatica. È come una ventata di aria fresca che non ha la pretesa di cambiare niente, ma serve a prendere fiato per tornare a tuffarsi nella vita.

 

“Nelle relazioni tutto si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma”

Era un tardo pomeriggio. Avevo 17 anni, stavo in seminario a Taranto. Prima della messa mi fermavo a meditare su un passo del vangelo. Quel pomeriggio lessi la parabola del seminatore. Mentre leggevo, lentamente, mi sembrava di stare vicino al seminatore che in maniera maldestra seminava i preziosi semi un po’ dappertutto. Il seminatore, per definizione, deve essere una persona saggia e previdente. Perché seminava dove sapeva già che non poteva crescere il grano? Mi sembrava di stare a un passo dal seminatore che con gesti semplici, che mio padre mi aveva insegnato anni prima, continuava a seminare soddisfatto.

Ricordo spesso quel momento, soprattutto quando rifletto sul servizio in Comunità, sulla vita delle persone che incontro e sul senso dei gesti che facciamo. Penso al seminatore che non ha la certezza, ma solo la speranza, del raccolto eppure vive con solennità quel gesto. Ritorna a vedere le pianticelle di grano che lentamente crescono, attende la spiga con trepidazione, guarda il cielo aspettando le piogge, desidera il raccolto e lo aspetta ringraziando il cielo.

 

Penso alle relazioni in Comunità e penso ai semi sparsi dal seminatore: non tutti daranno la spiga ma è necessario e doveroso seminare!

Le relazioni in Comunità sono come semi che cadono nelle vite delle persone, e in noi! Basta un po’ di terra buona e accogliente, e i semi sono in grado di portare frutti meravigliosi!

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