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La “relazione di cura”

di Suor Maria Raffaela Letizia

(Articolo tratto da Notizie Emmanuel, Anno XXXVII, n.9-10, Settembre/Ottobre, 2018)

Incontrai padre Mario durante un ritiro diversi anni fa. Mi consegnò queste parole: «Tutto ciò che accade è solo per preparare il terreno! Accogliere gli altri è cosa del cuore e il cuore deve prepararsi!». Parole indelebili, stampate da allora nella mia mente e nel mio cuore.

La nostra relazione è iniziata così, con un incontro che mi ha dato il coraggio di rischiare verso una preparazione e una meta e che mi ha insegnato che la relazione ha una radice profonda: la fiducia che si riceve in un incontro autentico!

 

Chi di noi incontra l’intimità del cuore dell’altro non può non aprire il proprio cuore al medesimo modo! Chi di noi è chiamato a dare fiducia non può non averne ricevuta altrettanta. Le Sorgenti della fiducia ridonano senso e significato anche a ciò che poteva sembrare assurdo e malevolo! E, nell’incontro con persone ferite – “cattive” – problematiche, come sono visti i tossicodipendenti, gli alcolisti, i ludopatici, ho riconosciuto la forza ricreante di tale fiducia, la forza rigenerante di una relazione autentica!

 

Come possiamo essere in grado di offrire questa fiducia?

Come possiamo rendere autentico l’incontro con loro?

 

Il primo passo è imparare ad ascoltarsi in profondità! Spesso ho riconosciuto nella “loro cattiveria”, nelle loro ferite, nei loro disagi, qualcosa che appartiene anche a me! Dentro di me risuonano gli stessi risentimenti, le stesse ferite! Nessun cieco può aiutare un altro cieco se prima non permette alla sua cecità di essere gratuitamente sanata. La Comunità Emmanuel è stato il luogo di questa “operazione di cataratta”! È stata una scuola di vita e mi ha insegnato che più faccio esperienza di prossimità, di benevolenza, più mi sento in grado di offrire prossimità e amore!

 

Il secondo passo è apprendere per/con l’esperienza! Quando per la prima volta ho visto lavorare un operatore in un Centro terapeutico della Comunità, avevo una testa piena di teorie e tecniche. Mi sembrava di poter sorreggere il mondo! Quante aspettative avevo su me stessa! Avrei cambiato la sorte di chi soffre, di chi ha fatto soffrire, di chi paga il danno dei propri gesti inconsulti.  Pazientemente ho dovuto imparare che le sole teorie non bastano, né le sole competenze, né le sole tecniche, utilissime certamente per la cura, ma esse servono solo quando maturano da un cuore pronto, solido, accogliente! Ho imparato che le teorie e le tecniche si integrano con la compassione e la condivisione, con l’accoglienza e il sacrificio di sé. Padre Mario, Enrica e tanti altri ci hanno permesso di assorbire dalla loro esperienza di vita, questo metodo “esperienziale… è come quel lasciarsi mettere l’orecchio sul cuore che Gesù permette a Giovanni nell’ultima Cena!

 

Sulle mura dei Centri terapeutici spesso si trova la frase-motto della Comunità: “Cambia il mondo da dove puoi: comincia da te!”

Già, cominciare da sé: ma come?

Che cosa c’entra questo con la relazione di cura?

 

Questi anni a contatto con i giovani accolti nei Centri Terapeutici mi hanno abituata ad ascoltare le risonanze degli eventi dentro di me, a ritornare quotidianamente al fondamento della scelta di accogliere e condividere, al significato personalissimo che questi verbi hanno nella mia storia, alle resistenze che il mio cuore pone all’accoglienza e alla condivisione reali, concrete, al bisogno profondo di non restare soli! Fare i conti con queste istanze così intime e così profonde e darsi delle risposte di senso e di significato sono stati la mia fatica del “comincia da te!”! La relazione con l’altro spalanca gli orizzonti a una più veritiera conoscenza di sé.

 

La relazione di cura si nutre di queste consapevolezze acquisibili nel nostro lavoro educativo! Qui ci misuriamo con il nostro coinvolgimento nella storia dell’altro, nella sua specifica modalità di percepire il mondo, senza confondersi né perdere i confini. L’altro non ci lascia mai indifferenti. Santa Teresa Benedetta della Croce la chiamava empatia: «porre l’attenzione al dolore/emozione dell’altro, riguadagnando la distanza tra me e lui, riconoscendo che è un suo vissuto… Si acquisisce in tal senso una consapevolezza arricchita dal momento precedente».

 

Questa capacità di avvicinare le emozioni e i pensieri dell’altro, pur mantenendo i giusti confini, spalanca a consapevolezze sempre nuove, sia nell’accolto, sia negli operatori. Si cambia quando non si è rigidi, quando ci si arrende, ci si dà il permesso di ammettere le emozioni o i pensieri che nascono, rendendo ogni evento, comunque, un’opportunità di crescita, assumendo la responsabilità anche della propria ambiguità! Si cambia quando, consapevoli delle proprie risorse e dei propri limiti, ci si lascia conoscere e curare. Questa opportunità non la insegnano i libri, ma solo un incontro autentico con l’altro! Attingere al profondo di sé, ritrovare se stessi – come dice S. Giuseppe Moscati «senza infingimenti e senza bugie» – ci rende capaci di integrare le nostre competenze con la nostra interiorità al fine di avvicinare l’altro, sul serio.

 

Immagino da sempre la relazione di cura come un lavorio di scavo! I manovali non scavano mai profondamente e subito, altrimenti rischiano i danni alle condotte dell’acqua o alle fondamenta delle case. Scavano gradualmente così da permettere che “tutto sia visibile”. Bisoggna permettere che tutta la verità sia visibile. Una donna nel Vangelo ebbe il coraggio di prostrarsi ai piedi di Gesù per dirGli tutta la verità! Era stata guarita da una malattia lunghissima dopo averLo toccato. Come posso aiutare l’altro a dire la verità, a riconoscere la verità di sé se prima non ho toccato Chi mi guarisce? Come posso aiutare l’altro a dire tutta la verità se non mi lascio toccare per essere guarita? Certo, tutto questo richiede tanta pazienza! Tanta fatica! Tante energie! C’è un prezzo da pagare per chi intende educare, sostenere, curare!

 

Un giorno ero alle Sorgenti con uno dei reponsabili. Parlavamo tra noi delle difficoltà dei nostri Centri. Allora lui mi ha raccontato che aveva preparato accuratamente tutto il materiale per un ritiro pur sapendo che le adesioni erano poche! Questa perseveranza, questa determinazione mi sono rimaste dentro! Le parole “A noi spetta di amare, non di riuscire!” non sono forse questo?

 

Come educatori sappiamo, tuttavia, quanto è gratificante vedere i risultati della cura. Quanto è importante avere obiettivi e piani di trattamento. Tutti conosciamo il valore della creatività nell’esperienza educativa. E poi proviamo la gioia di vedere chi riesce a superare i propri problemi ed è finalmente sereno. Al contrario, siamo scoraggiati quando dopo aver lavorato – spesso tanto – non vediamo risultati. Ma io mi chiedo: «È davvero così perdente il nostro contributo se c’è chi ricade, chi sbaglia, chi muore?». Quando un seme muore pare che tutto sia finito, ma poi si vedono i primi germogli… i germogli nella relazione di cura sono visibili quando nei momenti bui esplodono altre opportunità: la nostra capacità di resistere, di crederci; la nostra voglia di esserci, la nostra decisione di volerci essere, sempre e comunque è lì che emerge.

Questa volontà di non spezzare mai è l’eredità che riceviamo da chi, nella Comunità Emmanuel, ha resistito; ha creduto – a prescindere – nell’accoglienza e nella condivisione; ha imparato a stare nel dolore, senza vie di fuga e, per questo, ha messo – sempre – la propria vita accanto a quella dell’altro; ha dato fiducia, ha perdonato e gratuitamente amato; ha aperto le porte della propria casa e ha pregato. La relazione di cura, quando è autentica, conduce inevitabilmente a tutto questo; mette in contatto con la profondità del proprio e altrui essere; stana e rende urgente la domanda sulla vita e sul dolore.

 

Chi appartiene alla Comunità sa di cosa sto parlando, di quanto sia faticoso accettare le incoerenze, andare d’accordo con e tra gli operatori, trovare sempre strategie e interventi giusti o almeno buoni con i giovani accolti! Sa quanto sia faticoso appartenere ad una realtà così diversificata. Sa però che la posta in gioco è l’apprendimento della logica dell’amore, sa che l’appartenenza è liberante, ci libera dall’egoismo e dalle pretese sull’altro, ci rende liberi di amare! L’appartenenza ci riporta all’essenziale.

 

Ripenso spesso a padre Mario e a Enrica, ai fondatori della Comunità Emmanuel e ai tanti che hanno permesso alle parole “accogliere e condividere” di diventare concretezza e farsi carne. Ora tocca noi – a me, a te, a chiunque si senta attratto da questa esperienza – tocca lasciarsi scavare, lasciarsi cercare, lasciarsi amare e… scegliere di mettere “vita con vita” accanto agli ultimi.

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