Da oltre 35 anni diamo una risposta alle dipendenze creando un'alleanza terapeutica con gli Enti invianti, le famiglie e i soggetti coinvolti.

Comunità Terapeutiche

Storia, organizzazione, evoluzione

LA COMUNITA’ TERAPEUTICA

 

Dr Vincenzo Leone

Medico chirurgo specialista in:malattie infettive, psicoterapia, agopuntura medica. Perfezionato in Medicina delle farmaco-tossicodipendenze.

 

 

“Ho incontrato tossici persi nella nebbia dell’effetto di sostanze… Testimonio, anche nella coscienza più invasa dalle sostanze, resta una frangia scoperta, libera: e lì che c’è ancora terreno per posare l’orma del piede. E’ lì e per di lì che si passa. Almeno in due.”           (Gilberto Di Petta, Il mondo tossicomane) 

  

LE COMUNITA’ TERAPEUTICHE

Storia, organizzazione, evoluzione 

Verso la fine degli anni settanta, in Italia iniziavano a organizzarsi le prime Comunità Terapeutiche per tossicodipendenti che, sorte sull’onda dell’urgenza che assumeva il problema droga, cercavano di rispondere alle domande di cura e di accoglienza da parte di giovani tossicodipendenti e delle loro famiglie. Nate in modo pionieristico come piccole case-famiglia, in quegli anni, pian piano si organizzavano strutturandosi come Centri Terapeutici, così come le conosciamo ora.

Prima del 1975, la risposta istituzionale alla tossicodipendenza consisteva nella reclusione in carcere o nell’internamento in Ospedale Psichiatrico.

 Il movimento del volontariato intuì la gravità del problema e il vuoto di risposte e agì da apripista, accogliendo e accompagnando le persone nel tentativo di liberarsi dalla tirannia delle droghe e affrancarsi dalla dipendenza. Il modello italiano delle Comunità Terapeutiche, sebbene non possa essere interpretabile come adozione pura e semplice di risposte importate da altri paesi, ma legato, piuttosto, alle modalità con cui si è evoluto il fenomeno nella nostra realtà e ai cambiamenti legislativi, istituzionali e culturali che ne sono seguiti, pur nella sua specificità, segue due principali modelli di riferimento: il modello psichiatrico di Maxwell Jones e il modello terapeutico residenziale americano.[i] Entrambi i modelli riabilitativi si concentravano sulla riflessione relativa agli accadimenti quotidiani e alle relazioni interpersonali ma, soprattutto, credevano fermamente nel cambiamento personale, nella comunanza di obiettivi e nell’aiuto reciproco in contrapposizione ai metodi tradizionali di trattamento.

  1. Il modello psichiatrico di Maxewell Jones

L’esperienza delle comunità terapeutiche (CT) si è sviluppata nell’ambito della tradizione psichiatrica britannica intorno alla seconda guerra mondiale e nel periodo immediatamente successivo.

Parlando di CT comunemente ci si riferisce a due principali esponenti della psichiatria istituzionale: Tom Main e Maxwell Jones per il loro contributo fortemente innovativo rispetto ad un sistema di cura della malattia mentale fino ad allora sostanzialmente custodialistico e segregante (Costantini, Mazzoni, 1984).[ii]

Gli antecedenti di questa nuova prospettiva teorica di intendere la cura del malato mentale, sono rintracciabili già durante gli anni ’30 tra i lavori di alcuni specialisti come Stack Sullivan e Karl Menninger, due psichiatri di formazione psicoanalitica che elaborarono un progetto di terapia ambientale con lo scopo di coinvolgere tutta l’organizzazione e tutti i rapporti interpersonali ritenuti potenzialmente terapeutici.

Sarà proprio l’idea di ambiente terapeutico a diventare uno dei presupposti teorici delle CT (De Dominicis, 1997).[iii]

Le conseguenze legate agli eventi drammatici della seconda guerra mondiale esercitarono un’influenza notevole nel maturare di queste nuove e significative esperienze nel campo della psichiatria sociale.

L’influenza che l’ambiente può avere su un individuo e sulla sua personalità fu sottolineata anche da Bruno Bettelheim, psicoanalista che ha vissuto in prima persona, per due anni, l’esperienza disumana dell’internamento nei campi di concentramento nazisti (Bettelheim, 1965).

Egli, infatti, ha approfondito la riflessione sul come l’uomo possa reagire di fronte a condizioni di vita fisica e psicologica estreme come quella vissuta da lui. Bettelheim ha osservato le diverse reazioni di prigionieri, molti dei quali andavano incontro a una disgregazione della personalità, mentre altri riuscivano a manifestare straordinarie forme di resistenza, pur sottoposti alle stesse condizioni ambientali. Per questo, secondo Bettelheim, l’ambiente svolge una grossa influenza nella formazione di importanti caratteristiche e può distruggere quanto guarire.

Il nucleo essenziale della sua testimonianza è riconducibile all’idea che la persona non si ricostruisce indipendentemente dall’ambiente in cui vive. Al tempo stesso, la constatazione delle diverse capacità di reagire da parte di individui che erano costretti a condividere uno stesso ambiente lo conducono a ribadire la centralità dell’individualità della persona.

Frutto di questo profondo ripensamento esistenziale fu la fondazione, negli anni ’50, della Orthofenic School di Chicago, una comunità per bambini e adolescenti molto disturbati. Egli infatti riteneva che l’ambiente, come era stato causa di distruzione e annientamento nei campi di concentramento, allo stesso modo, riproponendosi in modo diverso, poteva avere le potenzialità per una ricostruzione positiva dell’individuo: l’ambiente poteva essere terapeutico (Bettelheim, 1965).

Le CT in ambito psichiatrico nascono all’interno di una più ampia riflessione sul ruolo che l’ambiente esercita sull’individuo anche grazie al contributo che le scienze umane stavano producendo nel secondo dopoguerra.

L’autore delle prime esperienze di CT è Tom Main, il quale nel 1946 coniò il termine e il contributo di Maxwell Jones fu incisivo nella pratica psichiatrica del tempo (Corulli, 1997).

Il primo tentativo di creare una istituzione terapeutica, fu l’esperimento di Northfield, un ospedale militare specializzato nella cura delle nevrosi di guerra.

Bion aveva iniziato l’esperimento di riorganizzazione della corsia, ma fu sospeso dall’incarico e l’esperimento fu proseguito da Tom Main.

Questa seconda fase, detta anche secondo esperimento di Northfield , dette un maggior impulso alla ricerca sui piccoli gruppi e sulle dinamiche dell’organizzazione, riuscendo a mediare le esigenze di trasformazione della struttura ospedaliera con quelle della disciplina militare.

L’approccio seguito da Tom Main è stato definito di tipo socioanalitico o transizionale, cioè orientato alla risocializzione di questi ex reduci di guerra che vivevano relegati ai margini della società.

Main, all’interno di una matrice di pensiero psicoanalitica, si ispirò ad una visione sistemica per un progetto terapeutico che aveva come finalità immediata il reinserimento di queste persone nella vita sociale quotidiana (De Dominicis ,1997).

Egli osservò che i principali ostacoli al reinserimento dei pazienti derivavano dalle difficoltà ad assumere ruoli sociali: perciò una terapia valida doveva affrontare non solo il mondo psicologico dell’individuo, ma soprattutto potenziare le capacità sociali e relazionali.

Il presupposto su cui si fondava il suo lavoro consisteva nel considerare l’intera istituzione un sistema globale bisognoso di trattamento, condizione indispensabile per la creazione di una cultura positiva e terapeutica per tutti, pazienti e personale (De Dominicis, 1997).

Il contesto nel quale matura l’esperienza di Maxwell Jones è in parte diverso. Il suo impegno professionale si svolgeva all’interno di una istituzione psichiatrica vera e propria rivolta non solo ai reduci di guerra, ma anche a persone con disturbi psichiatrici più gravi.

All’inizio Jones non si poneva ambizioni psicoterapeutiche, ma alcune intuizioni maturate durante la sua esperienza, prima nel reparto per le nevrosi industriali del Belmont Hospital (1946), successivamente all’Ospedale Henderson, dettero risultati davvero innovativi, facendo di lui un pioniere nel campo della psichiatria sociale.

Egli svolse un ruolo fondamentale nel mettere in crisi i modelli custodialistici e repressivi allora usati (Jones, 1970).

Lo stesso Jones, ricordando gli anni della sua prima esperienza, affermava che la CT originariamente si era sviluppata come reazione ai sistemi chiusi e gerarchici che caratterizzavano le strutture psichiatriche degli anni ’50; tutto era partito come un tentativo di sviluppare un sistema aperto in un periodo in cui la teoria dei sistemi non esisteva ancora (Jones, 1976).

Maxwell Jones è stato un convinto sostenitore della relazione tra sofferenza mentale e condizioni sociali. La sua filosofia si ispirava a principi democratici ed egalitari con una visione positiva dell’essere umano e delle sue potenzialità inespresse; al tempo stesso la sua convinzione della possibilità che l’ambiente sociale influisca sullo sviluppo della persona, fece conoscere il suo approccio alla malattia mentale anche in termini di ecologia sociale: se era vero che in alcune circostanze l’ambiente poteva produrre malattia, allo stesso tempo poteva essere la cura (De Dominicis, 1997).

In un’intervista rilasciata da Jones nell’84 ritroviamo una definizione di CT come “un gruppo di persone che si uniscono con un obiettivo comune e che possiedono una forte motivazione al cambiamento”.

Il suo scopo è la crescita della persona come processo individuale e sociale. Il compito è quello di aiutare un individuo a raggiungere il suo “potenziale”. Maxwell Jones riteneva che lo scopo della crescita della persona potesse essere raggiunto attraverso una organizzazione orizzontale e non gerarchica dei rapporti tra lo staff e il paziente, in quanto esso stesso destinatario attivo della terapia (Jones, 1970). Per lo psichiatra inglese la riabilitazione sociale è frutto di un processo di apprendimento, per ottenere il quale si sfrutta il potenziale terapeutico sia dello staff che dei pazienti, in un clima di aperta e attiva collaborazione (Corulli, 1997) .

Rapaport, antropologo e autorevole conoscitore del pensiero di Jones, individua le basi ideologiche che meglio qualificano la CT così come è stato pensato da Maxwell J: quattro sono le caratteristiche della vita nelle CT che sono importanti nel facilitare il cambiamento (Rapaport, 1960):

  1. La permissività: cioè il permesso di comportarsi come se i limiti sociali non fossero presenti;
  2. Il comunitarismo: la condivisione delle responsabilità;
  3. La democrazia: la condivisione del processo delle prese di decisione tra lo staff e il paziente;
  4. Il confronto con la realtà;

Questi pochi ma essenziali principi sono espressi dallo stesso Jones, quando afferma che “ciò che distingue una CT da altri analoghi centri terapeutici è il modo in cui le risorse globali dell’istituzione, lo staff, i pazienti e i loro parenti si riuniscono autocoscientemente per favorire il trattamento. Ciò implica, soprattutto, una modifica nell’abituale status di pazienti. In collaborazione con lo staff essi partecipano attivamente alla propria terapia, a quella degli altri malati e in molti aspetti, alle attività generali; il che è in netto contrasto con il loro ruolo relativamente più passivo e recettivo nei regimi terapeutici convenzionali”(M. Jones, 1970).

Per Jones la CT deve basarsi sulla libera comunicazione sia all’interno dei gruppi sia fra i gruppi di pazienti e lo staff, nonché sugli atteggiamenti permissivi che incoraggiano la libera espressione dei sentimenti e ciò implica un’organizzazione sociale democratica ed egalitaria piuttosto che una tradizionale gerarchia.

Una delle caratteristiche importanti della CT per Jones è che deve essere alimentata da una cultura terapeutica. Infatti secondo lui, all’interno di una CT ben presto iniziano a formarsi degli atteggiamenti, delle credenze e dei modelli di comportamento, cioè una sorta di cultura globale che si struttura gradualmente attraverso il tempo.

Secondo Jones la formazione di questi modelli culturali può rappresentare un ostacolo al trattamento dei pazienti nei confronti dei quali deve essere sempre presente l’attenzione ai loro bisogni. Così egli auspica la continua tensione della CT verso la costruzione di una cultura terapeutica:

“Quando usiamo il termine cultura terapeutica ci riferiamo ai tentativi tesi a modificare questi modelli, per rispondere ai bisogni terapeutici dei pazienti, tentativi che richiedono notevoli discussioni e indagini sulla natura di molti atteggiamenti in essi coinvolti – e ancora –  I tipi di atteggiamento che contribuiscono a una cultura terapeutica sarebbero in sostanza un’accentuazione della riabilitazione attiva, contrapposta al custodialismo e alla segregazione; la democratizzazione, contrapposta alle vecchie gerarchie e alle formalità della differenziazione di status; la permissività, piuttosto che le idee solitamente limitate su ciò che si può dire e fare; il comunitarismo, opposto a una accentuazione del ruolo terapeutico originario e specializzato del medico” (Jones,1970).

Un altro elemento che caratterizza la vita all’interno di una CT è la situazione di living-learning o di confronto (Bruni, 1992; Ravenna 1991)[iv].

Jones definisce questa situazione “un temporaneo confronto fra gli individui, staff, malati, parenti e altri, che sono coinvolti emotivamente in una crisi, di modo che ciascuno possa acquistare il grado di introspezione che lo aiuterà ad affrontare la difficoltà” (Jones, 1970).

Per spiegare la natura di questo concetto, Jones distingue l’insegnamento dall’apprendimento in quanto quest’ultimo viene percepito come un’acquisizione di nozioni e tutt’al più una comunicazione unilaterale.

Diversamente il living-learning è una tecnica di confronto diretto, una comunicazione a doppio senso, durante la quale vengono affrontate le crisi nel momento stesso in cui hanno luogo, quando i sentimenti sono vissuti intensamente e possono essere apertamente espressi.

Il living-learning è una forma di apprendimento sociale che coinvolge ogni individuo, sia il malato sia lo staff che lo segue, e aiuta ciascuno a diventare più consapevoli del pensiero e dei sentimenti altrui; e di conseguenza ad avere una visione più complessiva e globale della situazione.

Sebbene l’idea di CT di Jones si differenzi da quella dell’intervento psichiatrico tradizionale perché rifiuta un’interpretazione medicalizzata del disagio umano e un’impostazione fortemente gerarchizzata del rapporto terapeuta-paziente, il suo contributo si colloca all’interno delle istituzioni. L’intento era, cioè, di modificare la psichiatria dall’interno dell’istituzionalizzazione (De Dominicis, 1997).

Il modello jonesiano trovò pertanto consenso e accoglienza in Italia, ma allo stesso tempo fu criticato dal nostro più grande esponente del movimento dell’antipsichiatria:  Franco Basaglia, allievo dello stesso Jones.

Basaglia (1981) individua nel concetto di CT il pericolo di una estraniazione del paziente dalla realtà sociale e, pur riconoscendo a Jones il merito di aver introdotto una visione e una pratica di metodi umanitari e democratici, non condivide la condizione di separazione del paziente dalla propria comunità di appartenenza più ampia. Per capire il valore del dissenso di Basaglia, dobbiamo ricordare che negli anni ’60-70 nasce il movimento antipsichiatrico che andò decisamente oltre proponendosi di realizzare alternative radicali alle istituzioni psichiatriche, attraverso una rete di comunità che fuori dal contesto manicomiale gestissero diversamente il problema della malattia mentale (Ravenna, 1991).

Questi sono gli anni della nascita negli USA della psicologia di comunità, alla ricerca di risposte al disagio mentale alternative alle istituzioni tradizionali.

Questo diverso orientamento di pensiero permetteva di guardare il tema della malattia mentale e della salute come un’entità che riguarda la società e la comunità in quanto tali, esse pertanto devono assumersi la responsabilità di affrontarla senza segregare il malato in isole slegate dal mondo come i manicomi.

Inoltre, la critica non si riduceva al danno derivante dal separare il malato dalla propria comunità di appartenenza, ma si ampliava diventando molto aspra per quel che riguardava il concetto di istituzioni totali (Goffman, 1972) o la natura stessa di malattia mentale.

A conclusione di questa esposizione si ricorda che le CT per tossicodipendenti che si rifanno al modello anglosassone, derivano la loro organizzazione e le loro scelte terapeutiche dai principi esposti da Maxwell Jones. Le caratteristiche fondamentali di tale modello possono essere così riassunte:

  • Adesione volontaria alla vita comunitaria;
  • Rispetto per le regole scritte e orali che caratterizzano la vita di gruppo, improntata sempre alla democrazia;
  • Indirizzo dell’attività del singolo e modifica del suo comportamento patologico in modo tale da rendere possibili il distacco dalla comunità nel momento giusto ed il conseguente reinserimento nella società;
  • Importanza dei rapporti interpersonali e di interazione stimolante;
  • Analisi critica del vissuto quotidiano mediante riunioni di gruppo, che si possono considerare come occasioni psicoterapeutiche;
  • Promozione della comunicazione tra gli ospiti residenti e tra questi e lo staff;
  • Superamento del rapporto con l’autorità all’interno della comunità;
  • Riappropriazione mediante situazioni sia spontanee che create di comportamenti sociali adeguati (Lai Guaita, 1987)[v].
  1. Il modello americano delle comunità residenziali

Il modello di CT americano si sviluppa in alternativa alla tradizione intellettuale del paese e presenta caratteristiche specifiche che lo differenziano rispetto ai modelli di intervento sorti in ambito psichiatrico. In particolare, tale modello è caratterizzato dal fatto che non sono state le tradizionali figure professionali a preoccuparsi del disagio sociale, ma sono gli helpers, cioè persone che, avendo superato il proprio disturbo, aiutano altri a fare lo stesso.

Il modello americano nasce infatti dalla pratica del self-help, il mutuo aiuto basato sull’utilizzazione dell’esperienza personale, realizzata in gruppi omogenei per problematica.

Le caratteristiche salienti del self-help possono essere così riassunte:

  • Il gruppo dei pari è considerato come sorgente della terapia stessa;
  • È importante l’identificazione tra pari e modelli di ruolo credibili;
  • L’aiuto dato agli altri è considerato uno degli strumenti principali del proprio recupero; esso migliora la stima di sé attraverso l’esercizio di un ruolo positivo ed è stato definito paradossalmente “altruismo egoista” (De Dominicis, 1997).

Questi gruppi di “auto aiuto”, che hanno ottenuto buoni risultati, sono indice di una buona coesione sociale indispensabile per il loro stesso sviluppo, ma hanno ricevuto anche alcune critiche come l’estrema concentrazione sulle responsabilità individuali e la resistenza a intervenire e partecipare alle politiche sociali. In particolare agli Alcolisti Anonimi, è stato criticato l’atteggiamento estremamente moralista definito come “blaming the victim”(biasimare la vittima) che non tiene conto dei fattori socio-culturali che influiscono sull’abuso di alcool (Ravenna, 1991).

In tempi più recenti però, l’organizzazione dei self-help è mutata: il rapporto fra i professionisti della salute e gli helpers è divenuto di centrale importanza e questi movimenti si sono avvicinati al dibattito politico-sociale. Ne sono un esempio i movimenti di auto aiuto dei genitori di portatori di handicap, la National Organization for Women, l’Abused Women’s Aid in Crisis e molte altre organizzazioni i cui obiettivi superano i tradizionali confini dell’auto aiuto, ponendosi come soggetti politici con l’obiettivo di ottenere trasformazioni sociali.

Le origini dello stile di intervento adottato dai self-help americani (Serra C., 2004) risalgono a tempi molto antichi: ci sono stati in passato alcuni movimenti che, animati da spirito religioso, avevano l’obiettivo di contenere e fronteggiare il fenomeno dell’etilismo. Il più famoso, l’Oxford Group, risale addirittura al 1700; questo era un gruppo di matrice religiosa che proponeva relazioni basate sull’onestà e sull’altruismo e richiedeva ai partecipanti di confessare pubblicamente il proprio fallimento personale come inizio di una rinascita umana.

Queste prime esperienze di auto aiuto furono precursori delle prime CT per tossicodipendenti, che nascono negli USA negli anni ’50. Esse fin dall’inizio si presentano come delle esperienze residenziali, drug free e terapeutiche, cioè finalizzate ad operare nel tossicodipendente un cambiamento nel suo stile di vita.

Le esperienze di comunità terapeutiche americane, in particolare quelle definite concept based, rappresentano un esempio significativo (insieme all’intervento proposto dalla tradizione britannica) per quelle italiane nascenti.

Furono esse a fornire la spinta per la diffusione di un modello gerarchico di comunità.

L’approdo delle CT di matrice americana in Italia e più in generale in Europa, incontrò successo ma anche difficoltà dovute soprattutto ai diversi orizzonti culturali e sociali in cui le diverse esperienze si erano sviluppate.

Infatti in Europa fu il mondo dei professionisti a giocare un ruolo centrale nella realizzazione degli interventi terapeutici, (contrariamente a quanto successe negli USA); e quindi il sistema politico faticò a riconoscere negli helpers, figure non professionali, i portavoce e i cardini del sistema di intervento (De Dominicis, 1997).

Nonostante ciò il contributo e l’influenza sulle esperienze italiane ed europee sono stati comunque pienamente riconosciuti.

2.1. Alcolisti Anonimi

Alcolisti Anonimi è sicuramente il più grande movimento di auto aiuto al mondo, ad esso si sono ispirati (direttamente o indirettamente) tutti i gruppi nati successivamente.

L’associazione di AA nasce nel 1935 in USA, fondata da Robert Holbrook Smith e Bill W., due membri dell’Oxford Group che superarono il loro alcolismo confidandosi tra loro, impegnandosi a riparare i propri errori e convertendo altri alcolisti alla sobrietà.

Tutto iniziò quando Bill W., dopo aver sperimentato la sensazione di aver “toccato il fondo”, si convertì all’astinenza, ma essendo andato ad Akron per ragioni di lavoro, si trovò nuovamente in preda alla tentazione di bere e sentì che l’unica salvezza era trovare un altro alcolista con cui parlare. Fu così che conobbe dr. Robert Holbrook Smith (dr. Bob), presentatogli da una amica comune (Alcolisti Anonimi, 1986; Yablonsky, 1989; De Dominicis, 1997).

Bill W. cercò invano di convincerlo a non bere parlandogli per ore; il suo interlocutore rimase comunque molto colpito soprattutto dal fatto che alla fine della conversazione, fu Bill W. a ringraziarlo di cuore per l’ascolto.

Successivamente il 10 giugno 1935, dr. Bob, dopo aver sperimentato anch’egli il crollo, decise di mettere in pratica i principi dell’Oxford Group: nacque così il programma degli Alcolisti Anonimi.

I due uomini si misero seriamente al lavoro, convinti dalla prova dei fatti che se volevano conservare la sobrietà dovevano passarla ad altri. Così cominciò il periodo pionieristico di AA che si concluse nel 1939 con la pubblicazione del Grande Libro degli Alcolisti Anonimi.

Quando la stampa americana cominciò ad occuparsene ci fu un autentico diluvio di richieste di aiuto: nel 1941 gli alcolisti recuperati erano più di 8.000 e AA era già un’istituzione nazionale (De Dominicis, 1997).

Il movimento crebbe e dovette affrontare problemi di tipo economico, dottrinale e organizzativo. Sembra che nel 1944 c’erano già 360 gruppi attivi con circa 10.000 membri.

In quegli anni furono definite le linee guida del movimento: le Dodici Tradizioni furono approvate durante il primo convegno nazionale nel 1950 e rappresentano una guida al comportamento dei gruppi e insieme ai Dodici Passi presentati nel Grande Libro, costituiscono la base e lo stile del programma di AA.

Alla fine del 1944 dr. Bob morì e Bill W. rimase da solo alla guida di AA; negli ultimi anni della sua vita diventò una specie di “guru” per migliaia di persone.

Bill W. morì nel 1971 dopo essere diventato il “leader” di AA, cosa che aveva da sempre segretamente sognato.

Alcolisti Anonimi quindi si presenta come un macrogruppo innovativo e prorompente, ma anche come continuità del movimento dell’Oxford Group, da cui riprende molti principi.

I punti più focali e terapeutici in questo movimento sembrano essere:

  • Il gruppo: come strumento di terapia perché costituisce un muro protettivo formato da una comunità umana. Quest’impegno nell’aiutare gli altri costituisce proprio una terapia;
  • L’anonimato: è indispensabile perché i membri si sentano liberi di partecipare alle riunioni e di confessarsi pubblicamente;
  • La diagnosi di malattia: molti medici e studiosi dell’epoca avevano dichiarato l’inguaribilità dell’alcolismo (compreso C. G. Jung). La diagnosi di malattia sollevava gli alcolisti dallo stigma della turpitudine morale (un capitolo del Grande Libro parla appunto di questo: “Il punto di vista del medico”). Questa diagnosi determinò una posizione esistenziale di accettazione della malattia che modificava “il modo di essere nel mondo” dell’alcolista. L’alcolismo viene visto come una sorta di “allergia” all’alcol per cui la persona non è assolutamente in grado di bere anche una minima quantità di alcol senza sviluppare una dipendenza (cultura dell’astinenza);
  • L’astinenza: proprio per questa visione dell’alcolismo come malattia e dell’alcol come sostanza pericolosa, viene predicata l’assoluta astinenza; tanto che, l’aver bevuto una piccola quantità di alcolico, nella visione dei membri di AA, rappresenta una vera e propria ricaduta e perdita della sobrietà. In questo movimento non vengono distinte le modalità di consumo, non c’è differenza tra uso e abuso;
  • L’accettazione dei propri limiti: il modo di essere dell’alcolista viene definito come una personalità “tutto o nulla” ed estremamente bisognosa di dipendenza e di riconciliazione con un’istanza sovraordinata. Bill W. predicava: “…egoismo ed egocentrismo! Queste sono le radici dei nostri guai. Prima di tutto dobbiamo smettere di giocare a essere Dio.” Appunto l’alcolista viene visto come una persona incapace di regolarsi (Serra C., 2004);[vi]
  • Appellarsi a un potere superiore: l’uomo, per superare i propri limiti, ha bisogno di entrare in contatto con Dio e con altri uomini;
  • L’esperienza del crollo: il cambiamento avviene solo quando la persona ha raggiunto un grado di completa disperazione. Solo allora sarà in grado di sperimentare l’illuminazione divina, unica salvezza;
  • L’esperienza spirituale: chiave che apre la porta al cambiamento e alla rinascita. L’introspezione e il riconoscimento dell’intervento di Dio nella propria vita è molto importante. “Coloro che grazie a una esperienza illuminante e totale raggiungono una nuova consapevolezza e una modifica del focus della propria esistenza sono definiti “i nati due volte”;
  • La “resa”: cioè la “restituzione” e la riparazione del male fatto, rappresenta una rinuncia inconscia alle difese narcisistiche infantili e una richiesta di aiuto che permette la scoperta di una nuova famiglia: il gruppo. Si tratta di azioni riparatrici concrete perché il semplice pentimento non è sufficiente; questo elemento deriva dalla dottrina dell’Oxford Group (Alcolisti Anonimi, 1986).[vii]

Il movimento di AA è stato ed è tuttora un intervento di self-help di grande importanza e di grandi dimensioni, è stato precursore di molti altri gruppi e interventi di auto aiuto e comunitari, ma tuttavia ha ricevuto anche alcune critiche. Quella più rilevante consiste nella mancanza di distinzione tra modelli di uso o abuso, e di conseguenza la demonizzazione della sostanza e il considerare l’alcolismo come una malattia o una sorta di allergia cronica, a cui l’unico rimedio che si può porre è l’astinenza.

In sostanza, come sostengono molti autori odierni, Alcolisti Anonimi può essere interpretato come “una subcultura autoregolata di alcolisti sobri”; questo paradosso rende l’idea di come il movimento di AA combatta l’alcolismo senza però minarne le basi, cioè trascurando l’aspetto fondamentale della dipendenza intesa come approccio e modalità di consumo sbagliata. Questo tipo di subcultura, ai tempi della fondazione del gruppo, è stata avvalorata sia dalla cultura americana dell’epoca (periodo del proibizionismo del decennio prima) che dai pareri e dalle conoscenze scientifiche dell’epoca (“Il parere del medico”) che diagnosticavano la addiction come una malattia o una predisposizione; sono conoscenze queste che per molto tempo hanno influenzato (o continuano a influenzare) le politiche relative alle dipendenze dando origine ad un approccio patologizzante della questione, accompagnata dalle campagne di prevenzione “Just say no”, contrapposte alle propagande “Just say know” che educano alla responsabilizzazione e fanno distinzione tra i vari modelli di consumo (Meringolo P., Zuffa G., 2001).

2.2. Synanon

Charles E. Dederich, un ex dirigente di una compagnia petrolifera e con una vita in pericoloso declino, riuscì a smettere di bere grazie all’ aiuto degli A.A., ma fuoriuscì presto dal programma perché riteneva che alcolismo e tossicodipendenza richiedessero un trattamento residenziale (Yablonsky, 1984; Corulli, 1997).[viii] Inoltre sembrava che qualsiasi approccio che non fosse stato sviluppato interamente da lui stesso, risultasse limitante per il suo Io prorompente. Lo sviluppo di Synanon conferma quest’idea: Dederich sembrava aver bisogno di un impero basato sulle sue idee personali.

Synanon nasce nel 1958 in un vecchio magazzino in California e si presenta subito come una struttura riabilitativa (anziché terapeutica), ispirata alla filosofia di Emerson e alla autorealizzazione (piuttosto che all’ispirazione religiosa e morale degli AA), direttiva, autocratica e centrata sul “qui e ora”; fondamentali per il sistema erano i Synanon game: riunioni che funzionavano all’interno della vita comunitaria e servivano per la gestione e l’esplorazione delle emozioni (O’Brien, Henican, 1993).

Tre argomenti sembrano basilari nella filosofia di Synanon.

Il primo riguarda l’apparente successo ottenuto da Synanon con alcolisti e tossicodipendenti. Dederich era interessato a sperimentare una nuova forma di vita comunitaria, un’esperienza antropologica innovativa. La tribù era l’elemento fondamentale di cui sembravano beneficiare alcolisti e tossicodipendenti.

Conseguentemente la comunità diventa famiglia sostitutiva, in condizione di offrire ai residenti la possibilità di crescere in un ambiente sicuro. Si delinea qui la teoria evolutiva implicita delle CT, che vede nel tossicodipendente una persona immatura, bisognosa di crescere emozionalmente e nel controllo del proprio comportamento. La comunità si offre allora come esperienza emozionale correttiva attraverso la riedizione del rapporto educativo (De Dominicis, 1997).

Il secondo elemento consiste nel concetto di famiglia autocratica dov’è implicita la teoria educativa su cui si basava Synanon.  Il sistema di norme rigide, determinato dall’alto, presupponeva il rispetto anche senza il consenso e ripagava l’obbedienza con l’affetto e l’accettazione del gruppo: questo modello educativo rappresenta l’oggetto principale della critica.

L’impostazione autoritaria che Dederich diede alla comunità era funzionale alle sue tendenze al dominio. Questo fenomeno ricorre frequentemente nella storia delle comunità per tossicodipendenti e rappresenta uno degli aspetti più controversi; inoltre il concetto di famiglia autocratica che produce personalità autonome esprime una visione conflittuale dell’indipendenza (Yablonsky, 1984; De Dominicis, 1997; Zannusso, Di Giannantonio, 1988).[ix]

Il terzo elemento è rappresentato dall’autogestione e autosufficienza della struttura in cui il lavoro ha una funzione educativa. Esso permette di misurare e incentivare i cambiamenti attitudinali e comportamentali e di esercitare il senso di responsabilità.

L’autocrazia praticata in Synanon aveva una chiara matrice riabilitativa, infatti per molto tempo la tossicodipendenza è rientrata nella categoria di comportamenti psicopatici o antisociali, per i quali una delle principali caratteristiche era considerata lo scarso senso etico e la scarsa capacità di gestire gli impulsi.

Dederich assegnava una funzione omeostatica e rieducativi alla ribellione verbale, che paradossalmente veniva incoraggiata. L’impostazione è chiaramente comportamentista e riabilitativa puntando a far scaricare tensioni e a esercitare nuovi comportamenti.

All’espressione emozionale viene inoltre assegnata una funzione socializzante basata sulla separazione tra sfera privata delle emozioni e sfera pubblica del comportamento.

Le sanzioni disciplinari e le strigliate sono altri elementi che facevano parte del programma, il loro obiettivo è lo sviluppo della consapevolezza degli effetti del proprio comportamento (Yablonsky, 1984; De Dominicis, 1997).

Intuitivamente il fondatore di Synanon aveva colto due aspetti importanti della relazione terapeutica col tossicodipendente: il bisogno di contenimento, la dinamica della ricerca di attenzione e l’utilità di un certo autoritarismo che otteneva di tranquillizzare il residente; ma purtroppo quello stile autoritario ha portato a eccessi in materia disciplinare.

La Synanon Fondation crebbe a dismisura: nel 1966 ben 3.800 acri di terreno erano diventati di proprietà dell’organizzazione e la popolazione aveva raggiunto qualche migliaio di unità.  Il suo sviluppo prese la forma di un impero a livello mondiale e a metà degli anni 70 Synanon si presentava come una religione. Gli eccessi di Dederich e il suo assoluto potere all’interno dell’organizzazione, avevano rotto tutte le regole di salvaguardia di una comunità terapeutica. Egli rifiutò sempre di aderire a qualsiasi federazione o associazione internazionale di CT, così come per qualsiasi finanziamento pubblico che lo obbligasse a rendere visibili procedure e risultati (Lai Guaita, 1987).

Tutto questo portò alle tristi vicende del 1980 quando Dederich e due membri di Synanon furono accusati di tentato omicidio. La condanna di Dederich rese pubblica la degenerazione e gli abusi che ormai erano diventati il quotidiano di Synanon.

Quelle drammatiche vicende sollevarono numerosi interrogativi e critiche sull’autoritarismo della struttura comunitaria americana. Ne deduciamo quindi che, come sostiene D. Ottemberg (1992) la CT è protetta dal pericolo di trasformarsi in una “setta” finché rimane aperta al mondo esterno. Gli standard etici devono essere chiaramente definiti e prevedere limiti per l’autoritarismo nel rispetto dei fondamentali diritti della persona.

2.3. Daytop Village

Daytop segnò un passo avanti verso una CT disponibile al confronto con il mondo esterno, e per questo il suo modello è stato quello più determinante nella diffusione mondiale delle CT per tossicodipendenti; esso si è rivelato un movimento social-radicale che si fonda sui valori come il lavoro onesto, l’interesse per gli altri, l’uguaglianza, e riflette molto la cultura americana del tempo.

All’inizio, questo esperimento comunitario fu chiamato Daytop Lodge; esso nacque sui risultati di una visita di studio a Synanon nel 1952 per iniziativa dell’Ufficio per la Libertà Condizionale della Corte Suprema di New York. L’equipe era così composta: Shelly, responsabile dell’ufficio, A. Bassin, criminologo esperto nella terapia di gruppo e segretario esecutivo della società americana per la terapia centrata sulla persona, D.Casriel, psichiatra e creatore della Bonding therapy e H.Block, criminologo.

Le risposte del sistema assistenziale americano in quegli anni erano assolutamente inefficaci come nel resto del mondo, le dimensioni del fenomeno droga stavano crescendo sempre di più e l’opinione corrente sui tossicodipendenti era molto negativa. Così Shelly, Bassin e Casriel studiarono un progetto finanziato dal National Institute for Mental Health con 390.000 dollari, che mirava a riprodurre l’intervento di Synanon, che aveva ottenuto risultati sorprendenti a New York (Sugarman, 1974).

Questo esperimento, inizialmente, non fu affatto facile a causa del rifiuto da parte di Dederich di legarsi a qualsiasi struttura pubblica; ma nel 1963 David Deitch, un fuoriuscito da Synanon, gestì la prima comunità con il nome di Daytop Lodge. Nel 1968 però, le incomprensioni tra il Consiglio di Amministrazione e Deitch fecero allontanare quest’ ultimo dallo staff della CT.

Alla guida dell’istituzione gli successe così lo psichiatra D. Casriel, che ebbe un ruolo centrale nell’organizzazione delle terapie delle CT, utilizzando la sua teoria dell’ incapsulamento emotivo del tossicodipendente e il perfezionamento della tecnica dell’urlo (De Dominicis, 1997). Casriel sviluppò il concetto dell’immaturità del tossicodipendente, del suo bisogno di rafforzamento dell’Io e riassunse nelle 4R il modello educativo riabilitativo: Rinascita, Responsabilità, Realtà, Rispetto (Bratter, 1979).[x]

All’inizio della permanenza, la persona fa l’esperienza della perdita di tutti i privilegi di cui prima godeva, in modo tale che come un “bambino irresponsabile” sperimenti la sua dipendenza dagli altri. Questa fase viene denominata Rinascita. Durante il percorso l’ospite viene condotto a riconoscersi responsabile dei propri comportamenti (la Responsabilità) e delle conseguenze che da essi derivano. Questo può avvenire imparando ad affrontare la Realtà, cioè a non fuggire dalle situazioni che si presentano. Infine, rispettare non solo i propri bisogni e diritti, ma anche quelli degli altri (il Rispetto), (Bratter, 1979; Devlin, 1979).

I criteri salienti della struttura riabilitativa sembrano essere:

  • Affrontare i sentimenti: la dinamica e conoscenza dei sentimenti è alla base del comportamento della persona; la pratica dell’assoluta onestà nel riconoscere le proprie debolezze è il modo essenziale per lo sviluppo dell’utente e viene esercitata nei gruppi di incontro;
  • La lotta, la fuga e il ritiro: per Casriel il tossicomane invece di sviluppare forme di aggressione o fuga di fronte a situazioni negative, ha elaborato un precoce meccanismo di ritiro, cioè un meccanismo di distacco, di farsi scivolare addosso le cose, di negare la carica emozionale che gli permette di vivere perennemente in un’illusione di vittoria che rafforza il suo io aleatorio. La mancanza di vita privata è fondamentale per l’abbattimento del meccanismo del ritiro (Bratter, 1979);
  • I colloqui: possono sembrare un po’ brutali perché qualsiasi parte il tossicomane cerchi di recitare, verrà smascherata. Gli interlocutori (6-7 membri della comunità) seguono una precisa strategia che induce ad ammissioni e mettono a dura prova l’orgoglio. Il colloquio è un attacco alla vecchia immagine di sé per far raggiungere la consapevolezza di immaturità. Lo smascheramento delle difese mira a stabilire un contatto con il “nucleo debole” del nuovo membro (Zanusso, Di Giannantonio, 1988; Yablonsky, 1989);
  • Il tossicodipendente è considerato una persona immatura e psicologicamente disturbata, incapace di controllare impulsi e desideri, di instaurare relazioni soddisfacenti con gli altri (Bratter, 1979; De Dominicis, 1997; Zambetto, 1976; Picchi, 2002);
  • Gli spazi per la vita privata sono molto limitati se non assenti, in quanto ogni momento della giornata è scandito da impegni comuni. Casriel riteneva che questa strategia aiutasse il soggetto tossicodipendente a non mettere in atto i suoi tentativi di “fuga emotiva”. Questa impostazione rese, per certi aspetti, l’esperienza simile a quella delle istituzioni totali. La mancanza di vita privata aiuta lo “smascheramento” della persona e l’abbattimento del ritiro; è considerato importante per il rafforzamento della persona. Questo è reso più accettabile nel contesto della cultura americana in cui la sfera privata appare meno marcata nella vita comune rispetto alla cultura europea e latina;
  • Il divieto di assumere qualsiasi droga e di esercitare azioni violente è assoluto; gli utenti hanno bisogno di imparare ad affrontare la tensione e superare le frustrazioni invece di reagire impulsivamente con il ritiro (la droga) o con l’attacco violento (De Dominicis, 1997; Picchi, 1984);
  • Le eventuali trasgressioni sono punite, ma le sanzioni vengono assegnate all’interno di una spiegazione razionale. La cultura di Daytop è profondamente razionale ed esistono motivazioni precise per ogni norma (Bratter, 1979);
  • È presente la mobilità dei ruoli. I ruoli che i residenti svolgono all’interno della comunità sono differenti a seconda del grado di cambiamento raggiunto. Quando il soggetto svolge con impegno le attività previste dal ruolo che la staff gli ha assegnato, egli viene premiato con l’assegnazione di una responsabilità ritenuta maggiore; può anche capitare che un soggetto che non si è impegnato adeguatamente, venga retrocesso a ruoli meno importanti;
  • La relazione terapeutica è intesa tra pari e l’unità di base del lavoro terapeutico è il gruppo; infatti non esiste distinzione tra personale e ospiti.

Anche l’esperienza di Daytop si presenta con le caratteristiche proprie delle strategie dell’auto aiuto, in quanto ritenute particolarmente importanti nel promuovere il cambiamento.

Daytop Village, a differenza di tutti gli interventi precedenti riguardo alle dipendenze, si apre al mondo esterno segnando così un’importante tappa nell’evoluzione delle comunità terapeutiche di oggi.

In particolare, possiamo individuare alcune differenze tra Daytop e le forme precedenti di intervento che evidenziano un cambiamento notevole nei metodi e nella cultura del trattamento delle tossicomanie:

  • In Daytop il programma terapeutico è stato pianificato “a tavolino” da un’equipe ed è stato un intervento aperto alle professioni sociali tradizionali, integrando così le modalità di auto aiuto tipicamente americane con la tradizione anglosassone di pratica professionale;
  • Il lavoro dei professionisti della salute viene integrato e completato da quello degli “helpers”. Tale collaborazione risulta essere molto utile, è indice di una cultura che sta cambiando e riduce il rischio di trasformare la CT in una istituzione totale;
  • Il riconoscimento e il finanziamento da parte del sistema pubblico di assistenza, oltre ad aprire la CT al mondo, garantisce una miglior qualità del servizio e una maggior visibilità dei metodi grazie alla necessità di “rendere conto” del lavoro svolto alle strutture erogatrici, garantendo così il rispetto dei diritti umani ed evitando che la CT si trasformi in un’isola in balia di una dittatura come Synanon;
  • Il modello terapeutico di Daytop si muove in direzione di un coinvolgimento della famiglia di origine dell’utente (De Dominicis, 1997; Yablonsky, 1989).

In seguito alla fondazione di Daytop furono aperte negli USA altri due tipi di CT anche se la loro fama rimase molto limitata.

Le Phoenix Houses furono iniziate nel ’68 a New York da un gruppo di ex tossicodipendenti che decisero di vivere insieme per costruirsi una realtà alternativa all’uso della droga. Essi si avvalsero dell’aiuto di un medico e della supervisione di alcuni membri di Daytop e di Synanon (De Stefano, Perotta, 1975).

Il periodo di permanenza previsto alle Phoenix Houses era di ventiquattro mesi scanditi in quattro fasi: 1) orientamento; 2) trattamento; 3) prima fase di rientro; 4) seconda fase di rientro.

La fondatrice delle Odissey Houses invece fu la dottoressa J.Densen Gerber che, constatata la scarsa efficacia degli interventi farmacologici, avviò insieme ai suoi primi pazienti la prima CT.

Le Odissey Houses nascono dopo una ricerca pilota al Metropolitan Hospital di New York con lo scopo di studiare le reazioni dei tossicomani all’intervento psichiatrico, su iniziativa volontaria.

Il finanziamento delle CT è sia privato, sia statale sia da enti locali. Ciò che caratterizza le O.H. è l’importanza data all’approccio psichiatrico, sebbene anche qui gli ex tossicodipendenti svolgano un ruolo fondamentale.

Il programma infatti cerca di combinare il modello strutturale di Synanon con la tradizione psichiatrica, creando un ambiente in cui, l’alto coinvolgimento dei membri e l’intensa partecipazione alla vita della CT predispongono più favorevolmente il soggetto all’efficacia dell’intervento psichiatrico.

Il programma è diviso in fasi: 1) il pretrattamento o induzione; 2) trattamento residenziale intensivo; 3) post trattamento o rientro in società.

La fase di induzione comprende l’azione di incontrare i tossicodipendenti e convincerli ad iniziare un trattamento ed un periodo di prova all’interno della comunità. Il trattamento punta molto sull’accettazione da parte del gruppo dei pari e sulle relazioni interpersonali come forza per un cambiamento di atteggiamenti e di comportamento. Col passare del tempo (fase del post trattamento) l’utente trascorre più tempo fuori dalla CT e comincia a orientarsi per le scelte di lavoro futuro (De Stefano, Perotta, 1975).

3. I due modelli a confronto

Il modello anglosassone e quello americano presentano delle diversità che è utile approfondire.

Differenti sono le condizioni in cui i due modelli si sono sviluppati e differenti sono i contesti storici e culturali.

Il primo, figlio della psichiatria e della psicoanalisi britannica, nasce sullo sfondo dei residui di disagio lasciati dalla seconda guerra mondiale e introduce alcuni aspetti di novità all’interno di un sapere scientifico tradizionale; il secondo nasce invece come espressione della mentalità pragmatica americana in risposta ad una patologia considerata sociale, ed emerge come alternativa alla tradizione intellettuale e scientifica del paese. In particolare i due modelli si rifanno a differenti teorie sull’eziologia della tossicodipendenza, con la conseguenza di mettere in pratica metodi e strutture organizzative diverse.

Nel modello americano il tossicodipendente è considerato una persona sotto l’aspetto emotivo infantile, bisognosa di seguire un percorso di maturazione per mezzo di procedure di controllo di tipo genitoriale autoritario.

Maxwell Jones al contrario rifugge da ogni metodo coercitivo, ritenendo che l’acquisizione della maturità sia frutto di condivisione delle responsabilità da parte dell’intero sistema.

In secondo luogo, il modello americano ritiene essenziale, come primo passo terapeutico, l’uso della pressione esterna per l’accettazione in comunità. Diversamente M. Jones sottolinea la volontarietà dell’ammissione (De Dominicis, 1997).

Ci sono altre fondamentali differenze tra le due filosofie:

  • Il concetto di responsabilità. Nelle CT americane la responsabilizzazione è frutto di un processo di apprendimento (meccanismo di rinforzo), che ciascun individuo deve compiere con l’aiuto della vita comunitaria. Nel modello anglosassone, invece, tale processo non ha ragione d’essere, in quanto il punto terapeutico di partenza è il riconoscimento a ciascun ospite delle responsabilità delle azioni verso se stesso e verso gli altri;
  • Il concetto di capacità individuale. Questo punto è complementare al precedente. Nel modello anglosassone l’individuo viene accettato per quello che è, mentre in quello americano la capacità viene in gran parte identificata nell’adeguamento all’organizzazione comunitaria con le sue leggi e le sue dinamiche;
  • Il principio della realizzazione individuale. Nella comunità stile anglosassone il ruolo del paziente come tale non si modifica, al contrario di quanto avviene nelle comunità americane, nelle quali, l’utente, se lo desidera, da paziente potrà con il tempo, diventare un membro dello staff (Lai Guaita, 1987). In quest’ultimo aspetto c’è un riferimento ai gruppi di self-help, all’interno dei quali il paziente più giovane riceve sostegno da quello più anziano, il quale a sua volta in precedenza ha ricevuto aiuti.

[i]      FIACCHINI V. (2004), Genitorialità di fronte al bisogno delle dipendenze: l’esperienza C.T. di Bicchio, Tesi di laurea – Università degli studi di Firenze- Psicologia.

 

[ii]     COSTANTINI D – MAZZONI S., (1984), Le comunità terapeutiche per tossicodipendenti, Roma, Nis.

 

[iii]    DE DOMINICIS A., (1997), La comunità terapeutica per tossicodipendenti, origini e sviluppo del metodo, Roma Ceis.

 

[iv]    RAVENNA M., (1981), Le comunità terapeutiche per tossicodipendenti;Bologna Patron.

 

[v]     LAI GUAITA M.P., (1987), La comunità terapeutica: origini storiche, interventi attuali in Italia, Milano, Jaka Book.

 

[vi]    SERRA C. (2004), Alcolismo, tossicodipendenza e criminalità, Roma, Ed. Kappa.

 

[vii]    A.A., (1984), Dodici passi dodici tradizioni, Gift Edition.

 

[viii]   CORULLI M. a cura di,(1997), Terapeutico e antiterapeutico: cosa accade nelle comunità terapeutiche?, Torino, Bollati-Boringhieri.

 

[ix]    ZANUSSO G./DIA GIANNANTONIO M. (1988), Tossicodipendenza e comunità terapeutica, Milano, Franco Angeli.

 

[x]     BRATTER T. (1979), Le quattro R della comunità terapeutica in Il Delfino n.18. – Roma CeIS.

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