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Disagio e prevenzione

di Vincenzo Leone

(Articolo tratto da Notizie Emmanuel, Anno XXXV, n.3-4, Marzo/Aprile, 2016)

«(…) Io sono fragile e, paradossalmente, sono portato a parlare di forza della fragilità: di forza, anche se lontano dalla stabilità, dalla infrangibilità» (Vittorino Andreoli)

 

Il disagio o il mal d’essere, e tanto meno la condizione di vulnerabilità, non sono da ricondurre alla fragilità perché questa è una condizione “costituzionale, ontologica” che ci appartiene perché uomini. Occorre riconoscerci tali e camminare sulla strada della vita cercando, per quanto ci riusciamo, di non farci male. Quando questa consapevolezza viene vissuta con paura, apprensione, ansia, angoscia, allora cominciano i problemi. Si tratta della insostenibile consapevolezza di essere fragili.

Se osserviamo lo scenario che oggi si svela davanti ai nostri occhi vediamo tanti giovani normali, figli di famiglie normali e così profondamente insoddisfatti, a rischio di comportamenti disfunzionali (uso di sostanze), stanchi della fatica di condurre la quotidianità della vita e tanti genitori, insegnanti, educatori, spesso disorientati, spiazzati, non sufficientemente attrezzati di fronte a certi atteggiamenti, comportamenti a rischio e alcune modalità relazionali preoccupanti e disfunzionali. Ci si interroga, si cerca di capire, comprendere come una società come la nostra, trionfante di efficientismo, non abbia ancora trovato il rimedio giusto. E allora il rischio di semplificare, di cercare la soluzione più comoda, più facile, è molto grande.

È emblematica, a questo proposito, una vecchia storia sufi: «È notte, piove, fa freddo. Un uomo, rincasando, vede un vecchio cercare qualcosa per terra, alla luce di un lampione. “Che cosa cerchi?”. Chiede fermandosi. “Le mie chiavi di casa”, risponde il vecchio in palese difficoltà. Decide così di fermarsi per aiutarlo. Passa un po’ di tempo e arriva un altro passante che si aggiunge ad aiutarli. Siccome le chiavi non si trovavano, quest’ultimo chiede al vecchio: “Ma sei proprio sicuro di averle perse qui?”. “Veramente no, risponde, ma qui c’è luce e non piove”».

Di fronte a tematiche complesse, come è quella della prevenzione, la prima cosa da fare, a mio parere, è liberarsi dalla tentazione (grande) di pensare alla soluzione magica, la più comoda. Il rischio è di accanirsi a cercare la causa unica, così che, una volta individuata e rimossa, si possa risolvere definitivamente il problema. Allora, di volta in volta, si individua il “capro espiatore di turno”. Seguendo questa logica, periodicamente si inciampa nel tranello di considerare la condizione di fragilità la causa del disagio, l’elemento di vulnerabilità, il fattore di rischio per l’uso di droghe.

Vedere nella fragilità la causa, l’agente eziologico del disagio dei nostri giovani è fuorviante, illusorio e sbagliato. Perché lo stato di fragilità è radicato nell’uomo, ne rappresenta un fattore costitutivo, ontologico. Occorre fare attenzione a non cadere nell’errore di pensare che prevenire il disagio dei nostri giovani significhi eliminare, soffocare, la loro percezione di fragilità.

Ogni generazione, in tutti i tempi e in ogni angolo della terra, ha dovuto rapportarsi con l’esperienza della condizione umana, con i suoi limiti, con la sua condizione di provvisorietà, leggerezza, fragilità. Inoltre, occorre considerare che in alcuni periodi, nell’arco della vita, la persona è “fisiologicamente” più esposta e più indifesa.

La fase dell’infanzia e dell’adolescenza ne sono l’espressione più evidente. Quest’ultima coincide con il tempo della messa in discussione dei modelli genitoriali e della sperimentazione di nuovi modelli di riferimento. Sono momenti molto delicati per il futuro sviluppo della persona. È il periodo di grandi cambiamenti a livello somatico, psichico e affettivo, caratterizzato da improvvisi sbalzi di umore, imprevedibilità delle reazioni, senso di smarrimento, sfiducia e, soprattutto, difficoltà a gestire lo stato di sofferenza interiore a volte pericolosamente mimetizzato.

In questi momenti e in queste situazioni diventa importante considerare tre aspetti su cui riflettere e agire: La preoccupante carenza e debolezza delle agenzie formative-educative tradizionali (famiglia, scuola); l’incisivo, massiccio condizionamento che i mass-media hanno nella società, soprattutto, ovviamente, sui ragazzi. Sono spesso, questi ultimi, infatti, che stabiliscono valori, obiettivi, modelli, miti, stili di vita; propongono un mondo dell’immagine, dell’apparire, del facile successo, dell’anestesia. Il risultato di tutto questo è di contribuire a determinare scarsa tolleranza alle frustrazioni, incapacità di sostenere l’esperienza del dolore (emotivo, fisico, affettivo), il distacco e il disimpegno socio-relazionale, formando persone sofferenti, insoddisfatte, sempre più frammentate, disorientate; siamo nell’era della grande comunicazione ma la causa maggiore di sofferenza e dolore è la solitudine; l’abitudine, che diventa tendenza, a ricorrere prontamente a qualcosa capace di anestetizzare, placare tutto subito, con il rischio di venire attirati, ingannati da soluzioni illusorie che peggiorano la situazione, come accade con il ricorso all’uso di droghe e alcool.

È importante, quindi, analizzare la centralità di questo concetto: il disagio deriva dall’insostenibile consapevolezza di essere fragile e non dalla fragilità in sé. È importante, perciò, riconoscere la condizione di fragilità come espressione ontologica dell’essere umano, così come altrettanto importante è riflettere invece sulla insostenibile consapevolezza del nostro essere fragili.

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